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2021: odissea  nel caldo

2021: odissea  nel caldo

In Canada le temperature hanno raggiunto i 50 gradi, uccidendo persone e molluschi nei mari surriscaldati. Sulle Alpi, invece,
i ghiacciai si sciolgono, diventando polvere e acqua, e anche i teli geotermici protettivi possono fare poco. Cronaca di un picco di calore senza precedenti. E forse senza ritorno.

  • 2021: odissea nel caldo
  • L’inarrestabile boom dell’aria condizionata

Le immagini hanno fatto il giro del mondo.Spiagge coperte da un manto di gusci vuoti di cozze e vongole, di molluschi, lumache, stelle marine e anemoni di mare, spappolati. Siamo in Canada, lungo la costa del Pacifico. Circa un miliardo di animali marini è stato ucciso dall’ondata di caldo record che ha flagellato il Paese causando oltre 500 morti. Temperature fino a 50 gradi che hanno mandato in tilt l’ecosistema fino all’Alaska.

Mentre l’oceano riversa sull’arenile pesci morti per soffocamento da caldo, nell’entroterra centinaia di boschi si sono trasformati in gigantesche pire di fuoco divampate per autocombustione. Roghi che in alcuni casi hanno distrutto anche villaggi come è accaduto a Lytton, nella Columbia britannica. Poi strade deformate con l’asfalto liquefatto e cavi elettrici sciolti. Secondo Michael E. Mann, professore di Scienze atmosferiche alla Pennsylvania State University, il fattore scatenante è l’aumento della temperatura dell’Artico, un fenomeno sotto osservazione da anni ma che ora sembra aver superato tutte le previsioni.

Il meteorologo Federico Grazzini, che segue l’evoluzione del clima da 25 anni, dice di non aver mai visto niente di simile. Di solito gli aumenti sono di pochi decimali di gradi ma in Canada il picco è di 10 gradi in più rispetto alle massime precedenti.
Il Nord America ha fatto notizia per la straordinarietà degli eventi, ma situazioni anomale si stanno verificando ovunque. Per Grazzini il riscaldamento globale sta accelerando a una velocità superiore alle previsioni già allarmanti. In alcune località in Iraq e Kuwait sono stati superati i 50°. In Lapponia, dove a luglio al massimo si arriva a 25°, si sono toccati i 34°.

Non fa eccezione l’Italia, e non solo al Sud. Le nevi perenni delle Alpi si stanno ritirando con una progressiva, inarrestabile agonia. Lo chiamano il lamento del ghiacciaio. Sul Monte Bianco, lì dove vent’anni fa le guide alpine facevano palestra di ghiaccio, ora si sente il rumore dell’acqua che scorre tra le rocce nude. Il ghiacciaio Presena, tra Val Camonica e Val di Sole, anche quest’estate indossa un «vestito termico» fatto di lunghi teli che scendono da monte a valle. È il solo modo per contrastare l’arretramento della superficie nevosa.

«Tredici anni fa la provincia di Trento si è resa conto che doveva intervenire» commenta il glaciologo Christian Casarotto. «Il ghiaccio in alcuni punti si stava assottigliando e dividendo, i segnali più pericolosi perché precedono la morte». Stesso scenario sulla Marmolada, ricoperto da 38.000 metri quadrati di teloni per evitare che si avveri la previsione della sua scomparsa di qui a trent’anni.

Negli ultimi tre decenni, solo sull’arco alpino sono scomparsi circa 200 ghiacciai. Il climatologo Luca Mercalli ha stimato che, entro il 2050, il 25% delle località dell’arco alpino sarà impraticabile agli sciatori e si potranno sfruttare meno di 100 giornate di neve fresca all’anno. In mezzo secolo, la stagione si è già ridotta di 38 giorni e l’80% delle piste dipende dalla neve artificiale. A costi sempre più elevati perché il cambiamento climatico incide sui prezzi dell’energia e dell’acqua impiegati nella produzione di neve artificiale.

Valeria Ghezzi, presidente degli impiantisti italiani, spiega che «innevare un ettaro di terra costa mediamente 15.000 euro e per l’intera stagione invernale se ne vanno circa 100 milioni. La neve programmata ha bisogno di molta energia, 600 gigawattora l’anno, e tanta acqua, 95 milioni di metri cubi». Il sistema degli impianti (sono 1.820) vale un fatturato pari a 1,2 miliardi e conta 15.000 dipendenti. È un meccanismo ben rodato ma fragile.

«Negli ultimi anni le grandi stazioni si sono attrezzate ma le piccole strutture soffrono» afferma Giuseppe Cuc, presidente del Collegio nazionale dei maestri di sci, una realtà che conta 15 mila professionisti raggruppati in 380 scuole, di cui l’80 per cento attivo nelle regioni settentrionali. Il surriscaldamento ha costi enormi anche per l’occupazione. «La stagione invernale si sta accorciando e con essa le nostre giornate di lavoro. In alcuni anni la mancanza di neve ci è costata il 20% di ricavi in meno. L’innevamento artificiale equivale a una polizza assicurativa anche se molto cara» dice Cuc.

Il comprensorio del Dolomiti Superski, il più grande al mondo – 450 impianti gestiti da 130 società per 1.200 chilometri di piste – ha varato un piano di innevamento programmato da 90 milioni di euro con cannoni sparaneve che coprono il 97% delle discese. I maxi costi che le società devono sostenere ogni anno pesano fino al 30 per cento sui loro bilanci. L’assessore valdostano Luigi Bertschy, amministratore di una regione in cui l’industria della neve fa girare ogni anno 85 milioni di euro, è convinto che i nuovi impianti devono essere progettati, se possibile, tra i 2.000 e i 3.000 metri perché «in Valle d’Aosta le quote medie di caduta neve sono al di sopra dei 2.100 metri».

Il report di Legambiente Nevediversa 2020 racconta il nuovo volto della montagna. Ben 348 impianti sono in sofferenza, di cui 132 dismessi, 113 chiusi temporaneamente e 103 tenuti in vita artificialmente, con fondi pubblici. L’arco alpino è costellato da ruderi di funivie e ski lift abbandonati. Il surriscaldamento sta sconvolgendo anche gli equilibri ecosistemici del Mediterraneo. Gli ittologi hanno rilevato una diminuzione delle biodiversità. Sull’evoluzione di questo scenario globale, le teorie sono molteplici. L’ultimo rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) dell’Onu, è drammatico: «La vita sulla Terra può riprendersi dalle grandi mutazioni climatiche evolvendo specie nuove, ma l’umanità non può». È davvero l’ultima chiamata.

L’inarrestabile boom dell’aria condizionata

Un mese fa il Consiglio comunale di Milano è stato sospeso per le continue interruzioni di corrente elettrica. Simili guasti da anni ormai colpiscono la città. Tutti disagi dovuti a un formidabile aumento dell’uso dei condizionatori che si traduce in un maggiore consumo di corrente. In una settimana, in concomitanza con l’arrivo del caldo, il carico sulla rete milanese è cresciuto del 25% e in due giorni sono stati segnalati 80 guasti, quelli che normalmente si registrano in due mesi. E la situazione a breve termine non è destinata a migliorare, con interruzioni lunghe anche mezz’ora.

Al di là dei lavori di riaggiustamento dei carichi della rete, che richiedono investimenti e lavori di scavo ancora non fatti, questi disagi ci ricordano un problema generale poco discusso: mentre andiamo verso un mondo sempre più caldo, quale impatto avrà sull’ambiente e su noi stessi l’aumento vertiginoso dei consumi di aria condizionata? E quali soluzioni adottare?

Conviene partire da alcuni dati. Il boom dei condizionatori, scoppiato nell’estate torrida 2003, non si è mai fermato, un po’ come la corsa all’acquisto dei frigoriferi negli anni Cinquanta. Nel 2001 in Italia erano stati venduti 350.000 condizionatori, nel 2004 si era arrivati a 2 milioni e 100 mila. L’andamento è sempre rimasto in crescita (nel 2016 le vendite sono salite del 28% rispetto al 2015); la novità è che, secondo Assoclima, assistiamo a un altro mini-boom perché, causa Covid, la gente trascorre più tempo in casa: nei primi tre mesi di quest’anno le vendite di condizionatori sono state superiori del 20%.

C’entrano anche calo dei prezzi, incentivi statali ma, soprattutto, innalzamento delle temperature. L’Istat ha certificato l’aumento di un grado della temperatura media annua Abbassamento dei prezzi, incentivi statali ma, soprattutto, innalzamento delle temperature nelle stazioni dei capoluoghi italiani per il 2002-2016 rispetto al 1971-2000, con 17 giorni estivi in più e 14 notti tropicali in più. Secondo Cooling & heating Italia, i condizionatori sono ora 24 milioni. Un calcolo a spanne, per un condizionatore con consumo energetico di 1.000 W, prevede un costo in bolletta in tre mesi di 110 euro, se acceso per sei ore.

Rinunciarvi è impossibile: studi americani suggeriscono che nelle ondate di calore il rischio di morte cala del 42% con l’aria condizionata. Nelle città Usa si è passati da 41 morti l’anno ogni milione di abitanti degli anni Sessanta ai 10 degli anni Novanta. Restano due possibili fattori sui quali concentrare gli sforzi: l’efficienza degli apparecchi e i comportamenti degli utenti. «Riguardo il primo aspetto» dice Ettore Guerriero, ricercatore dell’Istituto sull’inquinamento atmosferico del Cnr, «le macchine più efficienti sono quelle che riportano un valore alto del Seer, Seasonal energy efficiency ratio. All’acquisto di un condizionatore bisogna puntare a un Seeril più alto possibile. Se maggiore di 8 corrisponde a un A+++».

Con un Seer di questo tipo, in un monolocale di 30 metri quadri si producono ogni ora 78 grammi di anidride carbonica. «Il problema è che la gente tende a non cambiare il proprio condizionatore per uno più efficiente e i consumi di CO2 sono in genere molto elevati». Nello stesso monolocale, quando il Seer si abbassa si possono emettere anche 220 grammi ogni ora. Questo dato si può paragonare con le emissioni di un’auto in un’ora di autostrada, circa 10.000 grammi, o ai 4 grammi di una email. In auto, l’aria condizionata emette 126 grammi di CO2, quando usato con parsimonia, e aumenta i consumi del carburante.

«Il comportamento degli utenti è cruciale. Una cosa che spesso non si sa è che solo in alcuni impianti, come nei grandi uffici, l’aria è immessa da fuori nei locali chiusi» aggiunge Guerriero. «Negli altri casi, il condizionatore non introduce nuova aria anche se la raffredda e la deumidifica. Quindi occorre arieggiare i locali, più inquinati dell’esterno. Per diminuire l’uso dell’aria condizionata, conviene disattivarla al mattino e arieggiare il locale. In auto, se i finestrini aperti bastano, meglio spegnerla».

È anche fondamentale sapere che il condizionatore funziona grazie a un processore che comprime un gas portandolo ad alta temperatura e pressione. Questo gas circola in una serpentina che, come quella del frigo, deve essere tenuta pulita. «Non bisogna pulire solo l’unità interna, ma anche la serpentina esterna» ribadisce Guerriero. Il resto è demandato al buon senso e alla conoscenza dei principi base della fisica. Talvolta è sufficiente deumidificare: con l’aria secca, il sudore evapora più facilmente. E il risparmio è enorme. Le pubblicità in tv poi ingannano: azionare il ventilatore dei purificatori Hot and Cool nella stanza prima di soggiornarvi non raffresca, meglio deumidificare e idratarsi se il caldo non è eccessivo.

Luca Sciortino

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