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1942, i tre mesi che cambiarono il conflitto

1942, i tre mesi che cambiarono il conflitto

Nel libro La svolta, il giornalista Peter Englund ha raccolto testimonianze (tratte da diari, lettere, memoriali) di «persone normali» – il pilota inglese, il filosofo francese, l’infermiera americana… – sui giorni che decisero le sorti della Seconda guerra mondiale. È la Storia, raccontata attraverso le storie.


Nei cinema americani spopolava il cartone animato Bambi. Alla fine del 1942 accadeva anche questo e mentre nel mondo si contavano le tempeste d’acciaio della Seconda guerra mondiale, la Disney preparava un cda da fatturati record. La realtà dipende sempre dai punti di vista. È la prima lezione di un libro straordinario che ci aiuta a riannodare i fili dei tre mesi che cambiarono la Storia del secolo breve: novembre 1942 – gennaio 1943, esattamente 80 anni fa, mentre tutto lasciava presagire la sconfitta degli Alleati, nell’arco di pochi giorni lo scenario mutò grazie ad alcune mosse determinate dalla partita a scacchi col destino. Stalingrado, Guadalcanal, El Alamein, tre nomi che farebbero dire a un velista della domenica «è girato il vento».

La seconda lezione è la scelta dell’osservatorio, il luogo dove raccontare il punto di svolta. Poiché le grandi battaglie, i colpi di genio dei generali, l’intervento di una nuova arma sono stati sviscerati dagli storici ufficiali, dagli avventizi su YouTube e dalle ricostruzioni digitali, il giornalista svedese Peter Englund sale su una torre e osserva quegli eventi con il cannocchiale più originale, quello delle testimonianze dirette. Lettere, resoconti militari, poesie, frammenti di diario, memoriali di personaggi anonimi e noti diventano reportage e compongono il puzzle di La svolta, sottotitolo Novembre 1942, i giorni che cambiarono il destino del mondo, Marsilio editore. Un libro che quasi a ogni pagina diventa un film nella testa di chi lo sta leggendo, perché il filo del discorso è cinematografico.

Il testimone della storia passa dalla lettera di un’impiegata belga al diario di bordo del comandante di un cacciatorpediniere giapponese che descrive i bagliori di un uragano oltre l’orizzonte (in realtà la battaglia di Guadalcanal è cominciata). Dalle impressioni di Albert Camus rifugiato a Le Panelier, nell’Arvernia di Asterix, in fuga dal clima di Orano ostile ai suoi polmoni ammalati, alle imprecazioni di una casalinga londinese alle prese con il coprifuoco e il razionamento dello zucchero. Dai fogli d’appunti di un macchinista canadese su un convoglio di navi nel Mar Glaciale Artico minacciato dagli U-Boot tedeschi alla testimonianza di Leona Woods, brillante fisica che lavorò con Enrico Fermi al progetto atomico Manhattan, quando il pool avviò la prima reazione nucleare nel laboratorio sotto le gradinate ghiacciate dello stadio del campus universitario di Chicago (dicembre 1942). Fino a quando al presidente Franklin Delano Roosevelt arrivò un messaggio il codice: «Il navigatore italiano è giunto nel nuovo mondo».

Così accade qualcosa di eccezionale: ne La svolta c’è la vita, non solo la guerra. C’è la quotidianità delle piccole storie che formano quella grande. C’è Paolo Caccia Dominioni che sbuffa nel caldo torrido del deserto nordafricano. «Un bravo maggiore di 46 anni che pur appartenendo all’élite dei paracadutisti porta sempre il cappello degli alpini con la penna» scrive Englund. «Spesso fuma la pipa. Da quando è iniziata l’offensiva britannica il 31º battaglione guastatori e il resto della Folgore hanno dovuto fronteggiare una pressione durissima sul fianco sud (…). È un attacco teso a sfibrarli, a sfinirli. Non ci sono finezze né mosse sottili. È tutto un martellare, martellare e ancora martellare. Chi la dura la vince. In questo momento a sud è tutto tranquillo. Ogni attacco è stato respinto. Che cosa accadrà ora? Forse hanno vinto? Dall’altura Caccia Dominioni scruta la terra di nessuno, dove i rottami dei carri nemici brillano dorati ai raggi radenti del sole al tramonto».

Si passa dalle dune del Sahara alle trincee descritte da Ernst Junger, fino alle macerie della periferia di Stalingrado attraverso le storie di cecchini russi e piloti di Stukas raccontate da Vassilij Grossman. Si va da un lussuoso appartamento berlinese a un sordido bordello di Mandalay per narrare come soldati e civili, uomini e donne hanno conosciuto la lotta fra brutalità e compassione, barbarie e civiltà. E ne parlano, contraddicendo la certezza di Primo Levi secondo il quale «chi ha visto la Gorgone non è tornato per raccontare o è tornato muto». Qui si rincorrono sensazioni, tragedie, speranze mescolate con onestà intellettuale, quasi guidate dallo spirito di Dino Buzzati che sul frontalino della macchina per scrivere aveva un appunto illuminante: «Racconta, non fare il furbo».

Nell’ora più buia è la gente comune ad accendere la fiammella della verità. Non servono giudizi, bastano le storie. Trentanove storie. Come quella di Art Robinson, figlio di una casalinga di Long Island, che scrive dall’Inghilterra alla sorella: «I ragazzi della Raf sono ok e uno di loro mi ha fatto venire in mente mamma quando si precipita giù dalla discesa di casa come una scheggia, perché ha raccontato di un atterraggio di fortuna definendolo “una spanciata”. Mi è venuta un po’ di nostalgia di casa. Non che ne abbia, ma mi farà piacere tornare quando avremo finito. Ora so però, e l’ho sempre saputo, che mi sento a casa su un aereo e da nessun’altra parte».

Affondando il naso dentro le pagine si scopre che quasi un secolo è passato, ma i riflessi condizionati sono gli stessi di oggi, dopo due anni di pandemia. La paura, la ricerca del cibo, gli affetti lontani, lo sguardo diffidente e felino nei confronti dell’altro, ma anche inaspettati slanci di solidarietà. C’è ovviamente anche la propaganda, e quella americana è la più efficace di tutte perché può contare sulla collaudata macchina dei sogni di Hollywood. «Questo film contribuirà a farci vincere la guerra?» si chiedono i produttori.

Nel 1942 della svolta una pellicola su tutte passa al vaglio della censura con entusiasmo, perché «esalta il ruolo degli Stati Uniti come porto sicuro di oppressi e profughi. Piace molto che il protagonista maschile americano si opponga al fascismo prima del 1939, così da dimostrare al pubblico che la nostra guerra non è iniziata con Pearl Harbor perché le radici dell’aggressione risalgono a ben prima». Tutto pianificato. Il mattatore è Humphrey Bogart, il film è Casablanca. Suonala ancora Sam. E noi a fischiettare.

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