Werther Pedrazzi, 'Scarpette rosse. La storia dell'Olimpia Milano, signora del basket'

Dopo un Europeo amaro, occasione però di riaccendere i riflettori sull'ex secondo sport nazionale, torna il campionato di basket e come ogni anno Milano freme per il "risveglio dell'anima" della sua Olimpia. Un'araba fenice che tiene gli aficionados prigionieri di un sogno antico e forse impossibile: rivivere le gesta di una squadra leggendaria. In attesa di sapere se sarà la volta buona, si respira odore di spogliatoio e di parquet leggendo Scarpette Rosse di Werther Pedrazzi, biografia di una squadra e appassionata, appassionante storia di vita e di sport.

Una storia "indisciplinata", tiene a precisare nel prologo il giornalista del Corriere, docente di Geografia economica ed ex giocatore professionista. Al diavolo la storia ufficiale con la sua conseguenzialità logica e un po' asettica. Scarpette rosse dipinge corpi intrecciati, amore e passione, dolore e furore, ferocia e lealtà, vittoria e sconfitta. Fotogrammi che si impongono con la prepotenza della memoria del cuore. Emozioni, "vita insomma". Come un romanzo, come un Mahabharata dei canestri con l'Olimpia nei panni dei virtuosi Pandava costretti a combattere, spesso in inferiorità tecnico-numerica, contro i loro cento cugini: Varese, Cantù, Pesaro, Siena...

L'Olimpia Milano , oggi EA7 Emporio Armani, ha attraversato età dell'oro in cui la palla al cesto contendeva al calcio i titoli dei giornali e i "signori della città" rispondevano al nome di Cesare Rubini, Sandro Gamba, Art Kenney, e poi Mike D'Antoni, Dino Meneghin, Dan Peterson. Giganti del basket e galantuomini dalle personalità gigantesche. Magici pifferai di una generazione di campioni, con mogli e fidanzate altrettanto speciali. Icone di orgoglio, lealtà, rispetto. Con la sua raffinata ironia, Pedrazzi apre gli spogliatoi della memoria dove ancora risiedono aneddoti indimenticabili.

I classici, le sfide con Varese e Cantù a misura di medievali tenzoni fra Impero e Papato, i 31 punti recuperati in una notte folle al feroce Aris di Salonicco, il celebre tuffo di Bob McAdoo a Livorno e il parapiglia dello scudetto rubato, l'affaire Bryant con il papà di Kobe a un passo dalla presa di via Caltanissetta e l'altro fuoco di paglia con Galliani e Berlusconi. Le abbondanti chicche, come quando Meneghin "battezzava" il beverone di Roberto Premier puciandovi i calzettoni sudati; o quando Arsenio Lupin si presentò nella prima amichevole contro il Federale Lugano rubando dieci palloni nei primi dieci minuti al povero play avversario; o la notte di Belgrado da cui Arturo Kenney tornò pieno di lividi e felice come una pasqua: "Oggi ho fatto la rissa più bella della mia vita... Sono riuscito a menare perfino i poliziotti..."

Scarpette Rosse si svolge sul palcoscenico di Milano, capitale economica d'Italia negli anni della ricostruzione e poi del boom, città "da bere" dei controversi anni Ottanta. Icona di un tempo che fu, raccolta sulle sponde del Naviglio attorno al ristorante Torchietto, santuario dove l'Olimpia digeriva trionfi e delusioni. Ecco, per dire del basket, nei Sixties poteva accadere che un'azienda come la Simmenthal subisse un'identificazione pressoché totale con la squadra che sponsorizzava. Da un'indagine di mercato dell'epoca, il 47% degli intervistati riteneva Simmenthal una squadra di basket e solo il 35% una carne in scatola. Per dire dei personaggi Olimpia, invece: negli '80 Benito Picone, leggendario addetto alla biglietteria soprannominato il "ghe n'è minga" (non ce ne sono), rispose picche a una richiesta di biglietti nientemeno che di Bettino Craxi (rischiò l'arresto). Tempi in cui al Palalido di domenica non entrava nemmeno uno spillo.

"Le cose hanno vita propria, si tratta soltanto di risvegliargli l'anima". Così lo zingaro Melquiades spiegava all'inizio di Cent'anni di solitudine la "magica" azione della calamita. Un concetto ripreso negli anni Novanta dallo sfortunato zingaro della panchina Boscia Tanjevic, che risuona ancora come un mantra nelle orecchie dei milanesi. Dal dopoguerra al Duemila, in mezzo secolo hanno visto meravigliosi solisti volteggiare con ali fatate a canestro eppure più di tutto hanno sempre amato lo spirito di gruppo, la continuità culturale, lo stile di una società che tra il 1936 e il 1996 vide succedersi alla guida solo 3 proprietari e 8 allenatori. Ben oltre i suoi califfi insomma, rammenta Pedrazzi, la gente di Milano amò Vittorio Gallinari, il leone che avrebbe partorito un divino discendente ma che all'epoca era simbolo del guerriero sceso nell'arena a "sputare sangue".

Emozioni di sport. Ma dopo aver viaggiato nella leggenda, ricomincia la sfida e per fortuna ricominciano i sogni. Per l'Olimpia, ancora una volta, ora o mai più.

Werther Pedrazzi
Scarpette Rosse, La storia dell'Olimpia Milano, signora del basket
Limina
240 pp., 18 euro

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