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Una rappresentazione della giustizia penale

Gli autori, con la sponsorizzazione dell’ Unione Camere Penali, pubblicano una ricerca sulle esperienze processuali degli avvocati penalisti e sulle principali problematiche di quel settore della professione forense.

Di Federico e Sapignoli sono professori ordinari nella facoltà di Scienze politiche e sociali dell’ Università di Bologna [il primo è professore emerito di Ordinamento giudiziario, il secondo insegna Metodologia della scienza politica e Metodologia delle scienze sociali].

Il volume, che riporta e analizza le esperienze raccolte attraverso la somministrazione di questionari ad un ampio campione [1265 avvocati penalisti], costituisce il risultato più recente del lavoro di ricerca degli autori.

Nel corso degli ultimi ventidue anni si tratta infatti della quarta pubblicazione che, attraverso il metodo delle interviste, vuole fornire una rappresentazione dello stato del nostro sistema di giustizia penale.

Sulla serietà e completezza del metodo utilizzato non credo si possano esprimere dubbi: i risultati pubblicati oggi tengono conto e cercano di interpretare analogie e differenze riscontrabili rispetto alle inchieste precedenti. Immutato resta l’ impianto che dà conto in modo analitico delle diversità – territoriali, di genere, di età etc.– del campione intervistato.

Significativo il contesto temporale nel quale la ricerca si è sviluppata. Essa infatti attraversa un periodo che ha visto molteplici  modifiche della disciplina processuale, con due momenti di rilievo preminente per l’ obiettivo, che gli autori si sono proposti, di sintetizzare i dati sul reale livello di garanzie assicurato ai cittadini: mi riferisco all’ entrata in vigore, nel 1989, del codice processuale accusatorio e alla riforma, nel 1999, dell’ art. 111 della Costituzione, con il recepimento dei principi del giusto processo imposti dalla CEDU.

I dati raccolti sono analizzati in cinque capitoli ai quali si aggiungono una postfazione del Presidente dell’ Unione Camere penali, Valerio Spigarelli, e la pubblicazione del questionario somministrato.

I primi tre capitoli ci forniscono un quadro dello stato in cui versa la protezione delle libertà di fronte alla macchina giudiziaria. Gli altri ci informano dei profili istituzionali e organizzativi dell’ avvocatura, da una parte, e del potere giudiziario, dall’ altra.

L’ analisi della professione penalistica rivela le molteplici difficoltà che connotano un’ attività non più circoscritta alla tradizionale dimensione elitaria e individualistica. Difficoltà a cui si aggiungono quelle indotte dalle tante disfunzioni organizzative dell’ interlocutore giudiziario.

Il capitolo dedicato al “percorso ad ostacoli” della riforma della giustizia, disegna analiticamente gli effetti critici della combinazione di due fattori.

Sul piano della funzionalità organizzativa quello costituito dalla dislocazione di magistrati presso il Ministero della giustizia, la Corte costituzionale e nei più variegati incarichi extragiudiziari: con una evidente sottrazione di personale alle funzioni istituzionali. Sul piano politico e del riparto di poteri, ed è la cosa più importante, questa realtà produce modificazioni in termini di costituzione materiale.

La funzione legislativa ed esecutiva è controllata e influenzata in modo costante dall’ occhio e dalla voce del potere giudiziario. E, giova ricordarlo, si tratta di un potere che, nel confronto con gli altri, si presenta compatto e risoluto nella sua aggregazione sindacale corporativa, dominando l’ organo di autogoverno. Se divisioni vi sono nel gioco delle correnti per la spartizione dei posti, esse si presentano unite quando si tratti di difendere gli interessi del corpo.

Quali le conseguenze, oltre allo stallo di qualsiasi seria riforma?

Da un lato, la perdita di influenza delle altre componenti del ceto dei giuristi, avvocatura e università, dall’ altro, e conseguentemente, una decisiva supremazia esercitata sulle decisioni legislative di politica penale. Difficile negare che, sulla arrendevolezza della politica, giochi l’ atout, costituito dalla gestione della coercizione e dallo scambio  tra notizie e supporto alle inchieste che intercorre con i media.

E’ nei primi tre capitoli che, in base ai dati raccolti, si individuano le topiche più ricorrenti di quella che viene definita la “drammatica testimonianza degli avvocati penalisti” sullo stato dei diritti di difesa del cittadino. Non posso che rinviare a una istruttiva lettura e mi limito ad una sintesi stringata.

Quanto alla fase delle indagini preliminari: vanificazione della disciplina del codice che le voleva limitate nel tempo e prorogabili solo a seguito di un controllo giurisdizionale. L’ ineffettività, o meglio inesistenza, di quest’ ultimo riguarda anche le intercettazioni.

Arbitraria, più che discrezionale, la scelta di quando inscrivere nel registro degli indagati. Stesso aggettivo per l’ adozione di criteri di priorità nella trattazione degli affari penali. Ancora modalità poco presentabili nella raccolta di fonti di prova dichiarative e inerzia nelle investigazioni eventualmente favorevoli all’ indagato: obbligo del PM, forse discutibile, ma , comunque, inserito nel codice dell’ ’89.

Il mio è solo uno schizzo del disegno molto più vasto che troverà il lettore: esso rappresenta una fase nella quale il potere coercitivo (carcerazione e sequestri preventivi) e mediatico delle procure si è irresistibilmente potenziato. Sfugge con metodo ad effettivi controlli giurisdizionali, pur immaginati dai compilatori del codice. Può dispiegarsi per tempi illimitati e al di fuori di qualsiasi assunzione di responsabilità.

Sappia il cittadino – e non importa se colpevole o innocente – che se incappa nella giustizia penale – ed è più facile che accada di quanto si creda – il teatro delle sofferenze sue e dei suoi cari, non sarà tanto il dibattimento e, nei casi più gravi, l’ espiazione di una pena. Il male gli verrà inflitto in via preventiva, privandolo della libertà, dei beni e anche dell’ onore, per via dei racconti e dei documenti usciti dagli uffici di procura, che, a volte, conoscerà dai giornali prima ancora di sapere di essere indagato.

Ma, si dirà, le cose andranno meglio al dibattimento, anche se non è proprio il centro dell’ accusatorio voluto dai riformatori. Anche a questo proposito i dati raccolti non sono confortanti.

E ciò non solo per la perdurante anomalia della unicità di funzioni e carriere, anomalia  particolarmente e sempre avvertita dagli avvocati penalisti. Cattive notizie anche a proposito delle prassi invalse nello snodo fondamentale della formazione delle prove in contraddittorio. Negli interstizi lasciati aperti dalle norme si insinua il fluido invadente del giudice che interviene sulle prove dichiarative uscite dall’ esame incrociato o compensa sviste o negligenze del PM introducendo prove nuove.

Ancora, e non solo nei processi con una difesa debole, l’ invito, a consentire l’ ingresso a fonti di prova raccolte dall’ accusa, così da eludere il contraddittorio.

Ma, si è detto da parte di un magistrato con una importante carica sindacale –ero presente- è drammatica questa testimonianza degli avvocati, tuttavia è pur sempre una testimonianza di parte, e non è stata assunta in contraddittorio!

Una osservazione allarmante.

Lo squilibrio tra i poteri di cui ho parlato sembra indurre a ritenere che ogni conoscenza, ogni rapporto con la realtà, portino verità solo se acquisiti attraverso la specola del processo penale, con il metodo giudiziario. Nulla di più inquietante dell’ affermarsi di questa epistemologia. Purtroppo la  vediamo sempre più spesso applicata: alla storia, alla scienza, alla salute.

Nel testo (p. 14 e ss.) ci si occupa proprio dei limiti conoscitivi della ricerca. Con un approccio metodologico da scienziati sociali, gli autori ne sono ben consapevoli. Sanno che non forniranno la verità sulla giustizia penale. Ma assegnano rilievo alla rappresentazione proveniente da un campione assai significativo dei soggetti che necessariamente si interpongono tra i cittadini e gli apparati di giustizia punitiva. Breve: è un libro che non piacerà a molti dei rappresentati. Certamente non a quelli che nei media, quotidianamente, si raccontano e si autocelebrano come unici guardiani delle virtù. 

(Gaetano Insolera - Ordinario di diritto penale dell’Università di Bologna)

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