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Tutte le donne del Re

Tutte le donne del Re

Quest’anno ricorrono i 200 anni della nascita di Vittorio Emanuele II. Un personaggio ricordato dalla storia perchè favorì l’unificazione dell’Italia. Pochi conoscono però la sua carriera da tombeur de femmes. Ecco il racconto della sua carriera da Don Giovanni.


Le date rispettano la biografia. Vittorio Emanuele II nacque, due secoli fa, la notte fra il 13 e il 14 marzo. Per il battesimo non si badò al risparmio: Vittorio Emanuele, Maria, Alberto, Eugenio, Ferdinando, Tommaso. Sembrano tanti ma è uno solo. Ammesso che fosse lui e non il figlio di un macellaio.

Massimo d’Azeglio che, quando non era vittima del suo cattivo umore, fulminava chi gli capitava sotto tiro con pettegolezzi micidiali, mise in giro la voce che il vero principe era morto in un incendio, a Firenze. Per non restare senza erede, la famiglia reale sostituì il neonato e non trovò niente di meglio che il figlio di un certo Tanaca che, di mestiere, per l’appunto, faceva il macellaio.

Un aneddoto velenoso di quel «serpente» di D’Azeglio? Si può risalire alla dinamica dell’incidente soltanto dalla prosa sgrammaticata di un tal caporale Galluzzo. Faceva caldo e intorno alla culla volavano sciami di zanzare. Per scacciarle, la domestica prese a schiaffeggiare l’aria, impugnando una candela che, tenuta troppo vicino alle coperte, appiccò il fuoco. Ma come non insospettirsi del fatto che, dall’incendio provocato, la governante morì ustionata mentre il piccolo risultò illeso? Del resto, il carattere di Vittorio Emanuele II e i tratti fisici si mostrarono lontano mille miglia da quelli dei genitori. Alto e magro il (presunto) padre e largo come la grancassa di un tamburo lui. Raffinata la madre (presunta) e lui rozzo senza aggettivi. Vittorio Emanuele II aveva la faccia del macellaio e i modi che usava – in pubblico e in privato – non erano in contraddizione con l’espressione del viso.

Con Vittorio Emanuele II la storia è stata comprensiva, sottolineando che era «galantuomo» perché mantenne lo Statuto albertino e favorì l’unificazione d’Italia anche se, in quegli episodi, si mosse più da comparsa che come protagonista. In compenso, quella stessa storia sorvola, tralascia e qualche volta nasconde il resto. Insieme a Ferdinando Maria, Umberto, Amedeo, Filiberto, Vincenzo (che sembrano tanti, anche se si tratta soltanto del fratello) venne affidato a un gruppo di precettori parrucconi, mediocri in tutto ma rigidi nel pretendere rispetto dissennato per le formalità. Inflessibili sull’orario. Sveglia alla 5, colazione sobria alla quale seguivano una quindicina di ore inconcludenti. Per cavarci qualche insegnamento utile, in quel clima e con quel corpo docenti, ci voleva l’intelligenza di un premio Nobel. Figurarsi Vittorio Emanuele che considerava la conoscenza una perdita di tempo. Le sue erano inclinazioni arcaiche. Gli piacevano i cavalli e la caccia, la sciabola e i duelli all’arma bianca. I libri lo innervosivano e i compiti lo mettevano di cattivo umore.

Arrivarono i 18 anni e Vittorio Emanuele, nel castello di Moncalieri, riuscì a convincere una cameriera «fresca e giovane» a fare l’amore con lui. Poi non si riuscì più a tenere il conto delle sovrane avventure. I suoi istruttori avevano avvertito il problema che il principe aveva «brouillement du sang». Altro che la grammatica e la sintassi: lui, in testa, aveva quella cosa lì. Si sposò con Maria Adelaide, figlia dell’arciduca Ranieri, viceré del Lombardo-Veneto e onorò le lenzuola coniugali con una vigoria quotidiana. Ma, per il resto del tempo, vita da scapolo.I suoi piaceri risultavano rapidi e senza impegno, disordinati, senza finezze né fantasia. Più che lussuria, un esercizio sportivo. Alle signore dell’alta società, eleganti e raffinate ma, certo, svenevoli e in qualche caso pretenziose, preferiva le contadinotte ardite e le popolane compiacenti. I letti a baldacchino li sostituiva volentieri con la paglia dei fienili.

Gli piacevano «pienotte», robuste, instancabili, grosse, grasse, vistose. Il suo ideale era Rosa Vercellana, «la bella Rosina», che di fatto restò la sua compagna per trent’anni. «Giunonica, forte e prosperosa le cui forme, a stento contenute negli abiti, davano l’impressione di essere sul punto di fuoriuscire». Certo, poteva imbattersi in qualche inconveniente. Una sera, entrò nella casa di una giovanetta passando per la finestra. Quando uscì fu assalito da tre individui (probabili parenti della ragazza) e dovette difendersi a colpi di bastone. Uno degli aggressori rimase a terra morto. Ma gli accadde anche di passare per cornuto. Quando la capitale d’Italia era a Firenze, Vittorio Emanuele II s’invaghì di Emma Ivon. Per sentirsi più libero, il re la diede in moglie al cavaliere Antonio Pessina che, quando serviva lontano da casa, doveva togliersi di torno. Una notte, Vittorio Emanuele II fece visita a Emma che, evidentemente, non lo aspettava perché, di sotto il letto, spuntò il barone Francesco De Renzis, aiutante in capo di sua maestà e, da quel giorno, consegnato alla fortezza di Alessandria in cella di rigore.

«Galantuomo»? Quand’era poco più che ragazzo, al seguito dell’esercito impegnato contro l’Austria, mentre i soldati morivano senza lamentarsi e, per la verità, senza capirne bene i motivi, lui ingannava il tempo facendo il bersaglio sui pavoni della cascina di Sommacampagna, vicino a Verona, scelta come quartier generale. Un bulletto di provincia. Il fattore, che si vedeva distruggere un grande pollaio, stava per fare esplodere una guerra nella guerra ma poi fu chetato con 20 lire che furono giustificate come «spese militari».

Partì per Parigi – missione importante – eccitato dalla notizia che le parigine non portavano le mutande. Straordinario che bastasse sollevare loro le gonne. Ma come trovare conferma? Si piegò verso l’orecchio dell’imperatrice Eugenia per chiederne conto. La first lady francese fu vista aprire il ventaglio per nascondere le guance che stavano avvampando. La regina d’Inghilterra, invece, fu costretta ad aprire le danze al suo braccio ma dovette restare con il collo storto per non essere investita «dalla puzza di mal lavato» che usciva dalla giacca. Per questo «più che di un re, faceva la figura di un caporale». Si scrivevano lettere, tiepidamente turbate, gli ambasciatori, per confidarsi che «frequentava prostitute», era «vacuo» e «volgare» e parlava «senza ritegno» nominando le principali dame di Torino e «dichiarando di essere stato in connubio con loro». «L’altra sera – parola di Viel Castel messa per iscritto – era citata una famiglia delle più elevate. Lui rise sgangheratamente e ci confidò che, una notte, era andato a letto contemporaneamente con la madre e tutte le figliole». Che, avendo usato il plurale, dovevano essere almeno due. Quando non si infilava a letto di qualcuna, il principale impegno del sovrano consisteva nel preoccuparsi degli affari suoi, disinteressandosi di quelli del governo.

I sudditi – ovviamente! – avevano la libertà di pagare le tasse che le ricorrenti «finanziarie» imponevano loro, in modo che lui avesse qualche opportunità in più prelevare quanto gli serviva. La lista civica a sua disposizione – cioè l’insieme dei beni economici – era la più alta. Gli zar costavano meno, la regina d’Inghilterra e, fatte le debite proporzioni, la Casa Bianca erano più modeste. Nel 1867 il suo appannaggio raggiunse la cifra di 16 milioni, pari al 2 per cento del bilancio.

La corruzione era di casa a palazzo. Loschi personaggi si presentavano al re immaginando disinvolte speculazioni e «affari» troppo simili a rapine di Stato. Correvano tangenti se si dovevano costruire i tratti ferroviari. Ci volevano soldi per privatizzare (prima) e ricomprarsi (poi) il diritto di monopolio sui tabacchi. Una spesa aggiuntiva doveva essere prevista per ogni opera pubblica data in appalto. Quando dici «tangentopoli» pensi che si tratti di un’inchiesta della magistratura degli anni Novanta e sei portato a credere che il marcio sia nato allora. La storia dimostra che le pianta del malaffare affonda nell’Unità d’Italia.

Il Parlamento dovette avviare quattro inchieste per chiarire voci di peculato che riguardavano il governo. Ogni volta, una pista che portava direttamente al re. Letizia Rattizzi, amante del re che il re dirottò a sposare il suo presidente del Consiglio, con una punta di malizia scrisse che Vittorio Emanuele II «percepiva alcuni milioni l’anno dagli stanziamenti per l’esercito» e – stessa fonte – che, nel 1868, la cifra «raggiunse i 20 milioni». I torinesi, gente schietta, avevano capito tutto. «Monsù Savoia pija gust a la canaja». Capivano che frequentava compagnie di furfanti. Si era organizzato un suo personale servizio segreto. Commentava l’ambasciatore James Hudson: «Uomini e donne della peggior risma che si limitano a spillargli denaro e dirgli quanto basta per eccitare la sua curiosità». Vittorio Emanuele aveva sentore che sparlassero di lui ma se ne fregava. Gli piacevano i toscani di trinciato forte. Appena alzato, si scolava un bicchierone d’acqua ghiacciata che i memorialisti chiamarono «nivata». E, quando aveva mal di testa – cosa che gli capitava se doveva impegnarsi a leggere – prendeva le pillole che i veterinari prescrivevano ai cavalli. Sulla scrivania teneva due pistole cariche. Se si sentiva nervoso, sparava una rivoltellata e – secondo il caso – abbatteva uno stucco, piuttosto che la cornice della porta.

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