Ma nonostante le acrobazie dialettiche del premier, la sconfitta dell’AKP è evidente: al di là della bocciatura del progetto presidenzialista, nonostante rimanga il partito di maggioranza relativa non ha raggiunto la soglia minima di 276 deputati necessaria per garantirsi autonomamente la fiducia, fermandosi a 258. Dopo 13 anni di stabilità determinante per realizzare quelle riforme democratiche e strutturali che hanno consentito la modernizzazione e la crescita economica, per la Turchia si riapre l’incubo dell’instabilità, di governi di coalizione o minoritari, di elezioni anticipate dall’esito imprevedibile. Implacabili infatti i mercati già a partire dal giorno successivo alle elezioni: la lira turca ha ceduto il 5% nei confronti del dollaro, la borsa ha aperto con un disastroso meno 8%.
Hanno pesato la transizione interna, il logorio e l’arroganza del potere, scandali ed episodi di corruzione, una comunicazione elettorale che ha rivendicato i successi passati senza presentare troppe proposte per il futuro, campagne di stampa delegittimanti (il nuovo e costoso palazzo presidenziale della capitale, presunti traffici di armi a favore dell’ISIS, i profughi siriani accolti in territorio turco). Ma anche le promesse populiste delle opposizioni – raddoppio del salario minimo, cancellazione degli interessi per i debiti da carta di credito, bonus di ogni tipo a pensionati e poveri – hanno avuto buono gioco nell’assottigliare il consenso per il partito di Erdogan.
Il successo dell’HDP
L’AKP però ha perso soprattutto dove l’HDP ha vinto, cioè nelle regioni a maggioranza curda: la presenza sulla scheda del simbolo di partito ha galvanizzato gli animi, lo stallo nel processo di pacificazione con il PKK ha raffreddato l’entusiasmo per il governo, attentati in serie contro rappresentanti e comizi hanno scatenato la solidarietà dell’opinione pubblica (l’AKP, d’altra parte, ha denunciato pressioni sistematiche e violente a favore del partito di Demirtas).
Il boom elettorale dell’HDP è anche dovuto a due ulteriori fattori: la soglia di sbarramento considerata un’ingiustizia e la conseguente mobilitazione – anche da parte di sostenitori di altri partiti – per consentirgli di superarlo, così da non consegnare all’AKP una maggioranza schiacciante per le riforme presidenziali; una piattaforma da sinistra radicale, basata su promesse di “più diritti per tutti” e non su proposte concrete di governo, che gli ha consentito di attrarre il voto delle frange massimaliste coinvolte nei movimenti di protesta (tra cui quello di Gezi Park del giugno 2013).
Il significato del voto
C’è chi ha parlato di prova di maturità della democrazia turca, visto che non ci sono state notizie di irregolarità o brogli (contrariamente a quanto riportato preventivamente dalla stampa italiana e internazionale, che come al solito si è lasciata trascinare in una delle molteplici campagne di delegittimazione anti-governative) e in virtù dell’alto numero di esponenti di minoranze etniche e religiose in parlamento.
In realtà, l’esito delle elezioni è la prova che il sistema politico turco non funziona e andrebbe modificato in profondità, in senso maggioritario e in modo tale da avere chiare alternative – di progetti, di eventuali coalizioni – presentate agli elettori. Le opposizioni infatti, compreso il nazionalista MHP (ultra-nazionalista, per quanto riguarda i rapporti con la minoranza curda) che ha ottenuto il 16% dei voti e 80 deputati, hanno condotto campagne di quasi esclusiva valenza negativa e populista, senza una visione concreta e credibile per il futuro della Turchia: un loro governo comune, soprattutto in virtù dell’incompatibilità tra HDP e MHP, è praticamente impossibile.
La priorità è l’approvazione di una nuova costituzione che rimpiazzi quella di stampo autoritario del 1982
Le opzioni che rimangono sono una coalizione AKP-MHP, entrambi di riferimento per la maggioranza dell’elettorato che in Turchia è strutturalmente conservatore, resa però difficile proprio dalle divergenze sul processo di pace coi curdi; oppure un breve governo di minoranza dell’AKP e rapide elezioni anticipate, magari dopo aver abolito la soglia di sbarramento, utili però solo se il partito ottenesse una maggioranza assoluta dei seggi perché successivi governi di coalizione – con o senza la formazione guidata da Erdogan – segnerebbero una battuta d’arresto del processo riformista e presumibilmente della crescita economica.
Una nuova costituzione, che rimpiazzi quella di stampo autoritario del 1982 e renda meno complesso il sistema politico, rimane in ogni caso la priorità assoluta: nella scorsa legislatura, però, le quattro forze politiche confermate il 7 giugno in parlamento non sono state in grado di trovare soluzioni o compromessi.