Più che Supersex, un Superflop

Supersex, come il giornaletto omonimo, è stata annunciata insieme alla promessa di raccontare l’incredibile storia di Rocco Tano. E sarà stato il titolo, l’allusione ad un mondo in cui il sesso sia (anche) un superpotere, o l’idea di poter assistere alla parabola epica di quel ragazzino di Ortona, ma le aspettative – sin da subito – sono state alte. Doveva essere bello. Doveva essere colorato, divisivo, doveva essere sporco e sudato e scorretto come ci si immagina possa essere l’industria del porno. Doveva essere tutto, non è stato niente. La serie originale Netflix, disponibile online da mercoledì 6 marzo, ha tarpato le ali della nostra fantasia, sostituendo all’epica la banalità di una narrazione già letta e già vista, dominata dall’eccessiva (e, a tratti, noiosissima) drammatizzazione dell’esistenza altrui.

Supersex, con Alessandro Borghi ad interpretare Rocco Siffredi, è un flashback lunghissimo. Ad introdurlo, è la decisione improvvisa della superstar, la sua rinuncia ad una carriera nel porno. «Mi ritiro», dice uno stralunato Borghi, vagamente imbarazzato e macchiettistico nei panni di Siffredi. «Mi ritiro», ribadisce, mentre una pioggia di flash gli piove addosso e le domande si fanno brusio, lontano, indistinto: tramite per un salto indietro, alle case popolari di Ortona e al dialetto abruzzese. Rocco, allora, fa Tano di cognome ed è un bambino come tanti del quartiere, il viso puntinato di lentiggini. Ha cinque fratelli, e il culto del maggiore, Tommaso. Tommaso è Dio, l’uomo che tutto può. Ed è un bastardo, figlio di una prostituta e compagno di un’altra. Rocco lo venera, sordo ai pettegolezzi del paese. Lo venera quando la madre, Carmela, lo ripudia. Lo venera quando se ne va a Parigi. Lo venera e basta, con la determinazione cieca di un bambino. Un bambino triste e solo. Rocco Tano, nell’economia della serie televisiva, è l’ultimo fra gli ultimi, fuori e dentro casa. Sua mamma non lo ha mai guardato. Rocco conta. «Si girerà», pensa, «Arrivo a dieci e la mamma mi guarda». Uno, due, i numeri vanno, Rocco è fermo, gli occhi cerulei di sua madre posati unicamente sul fratello, Claudio, che una sprangata ha reso handicappato. Rocco conta ed è solo dopo la morte di Claudio, avvenuta a dodici anni, che sembra ottenere un po’ di credito, di attenzione. Lo vorrebbe prete sua madre, e quel bambino triste ci pensa. «Avrei fatto di tutto per non darle un altro dolore», dice.

Poi, però, il salto torna, Rocco ha diciott’anni ed è a Parigi, ospite del suo Dio. Il sesso arriva allora, con il secondo episodio. Ma è un sesso imbarazzato, colmo di vergogna. Non è il superpotere del titolo, di quel giornaletto che il piccolo Rocco sfogliava ad Ortona. Supersex è cupa e drammatica, un racconto di formazione manieristicamente distante dalla narrazione nazional-popolare che ha sempre accompagnato il mito Siffredi. Niente, all’interno dello show, riesce a convincere. Non Borghi, di solito bravissimo. Non la dimensione eccessivamente intima ed intimista che si è scelto di dargli. Un gran peccato.

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