La Serie A in tv vale un miliardo?

Per quale ragione il campionato più combattuto degli ultimi dieci anni non sfonda in televisione? Perché gli ascolti della Serie A sono in calo, dopo non essere mai decollati per tutta la stagione tra polemiche per i disservizi tecnologici e discussioni sui metodi di rilevamento? Il calcio in Italia è ancora la killer application per definizione, quel prodotto Premium senza il quale una piattaforma rischia di non stare sul mercato?

Domande spontanee mettendo insieme tasselli di un unico puzzle, quello dei numeri della stagione della rivoluzione televisiva intorno al campionato, la passione per eccellenza degli italiani. In estate l'addio all'era Sky e del satellite e lo sbarco nel mondo dello streaming con la OTT DAZN. Poi mesi di discussioni e numeri in controtendenza rispetto alle previsioni, secondo le quali Sky non sarebbe sopravvissuta al nuovo sistema mentre DAZN avrebbe rappresentato il ponte tra il passato e il futuro, che per i presidenti della Serie A significa mettersi in proprio nella produzione e vendere i pacchetti chiavi in mano a una platea più ampia di operatori.

Obiettivo: fare meglio rispetto al passato, sfondare la soglia del miliardo di euro che da anni rappresenta il benchmark di riferimento interno, in attesa di poter monetizzare di più i diritti esteri per cercare di limitare i danni rispetto alla Premier League e alla Liga spagnola. Un anno dopo la domanda è: la Serie in tv vale ancora un miliardo? O ha bruciato audience, clienti e in definitiva il suo status di prodotto imprescindibile per chi vuole offrire un servizio a pagamento?

DAZN, ASCOLTI IN CALO (E CONTESTATI)

Nel penultimo turno di campionato, con la sfida scudetto apertissima e verdetti non ancora scritti in coda e per la qualificazione alle coppe europee, le dieci partite hanno raccolto su DAZN complessivamente 6.656.023 spettatori. Un dato inferiore a quota 7 milioni per la 6° volta nelle ultime 8 giornate dopo che nelle 10 settimane precedenti mai si era andati al di sotto con la punta record di 8,2 in concomitanza con la 26° giornata.

Un trend in calo indiscutibile e con numeri sospettati di essere sovrastimati dall'inizio e che l'Agcom ha imposto vengano ricalcolati utilizzando un rilevatore terzo e indipendente e non, come accade adesso, dalla stessa DAZN con la certificazione di Nielsen. La OTT non si è ancora adeguata all'input dell'agenzia e sulla qualità delle rilevazioni il dibattito rimane aperto, con il mercato degli investitori pubblicitari alla finestra in attesa di ricevere le garanzie richieste.

Anche restando ai numeri resi noti da DAZN e Nielsen, però, il calo è evidente. Milan-Atalanta e Cagliari-Inter, le due sfide scudetto a distanza, entrambe in esclusiva DAZN, erano collocate perfettamente come prodotto televisivo occupando dalle 18 alle 23 della domenica sera. Insieme hanno raccolto poco più di 3 milioni di individui. Pochi. E gli altri dove sono finiti?

SKY E IL CONFRONTO RISPETTO A UN ANNO FA

Nello stesso momento, l'analisi dei dati Auditel del mese di aprile ha mostrato per Sky una crescita dell'audience complessiva sull'intera giornata di trasmissione del 6,5% rispetto all'aprile del 2021. Quando la Serie A transitava prioritariamente sui canali di Santa Giulia con uno sforzo economico ed editoriale enorme. Nessun crollo, nemmeno di abbonati: Sky ne ha persi abbondantemente meno di un milione e ha risparmiato una cifra ingente riuscendo alla fine a tenersi in equilibrio anche senza il pallone.

A crescere impetuosamente sono stati i numeri della Formula Uno, trainati dall'effetto-Ferrari, e quelli del comparto dell'intrattenimento, tanto che c'è chi si è spinto a sostenere che lo spostamento da parte della Lega Serie A dalle 15 alle 18 delle partite di Milan e Inter nell'ultima e decisiva domenica della stagione fosse stato dettato dalla volontà di evitare sovrapposizioni con il GP di Spagna delle auto. Non è così: si gioca alle 18 perché al Questura di Milano ha negato a prescindere l'ipotesi che i tifosi rossoneri, in caso di scudetto, possano festeggiare a San Siro (occupato dagli interisti) in serata e il caldo afoso di questo strano maggio ha fatto il resto. Il tema, però, rimane.

TIM IN FUGA E LO SCENARIO FUTURO

Il problema non è solo di Sky o di DAZN, o degli operatori che si sono affacciati al mercato. Il problema è di tutto il calcio italiano: se viene meno il principio secondo cui la Serie A è la killer application imprescindibile, quanto varranno i suoi diritti quando nel 2024 saranno rimessi sul mercato? Nei prossimi mesi i presidenti dovranno cominciare a ragionare sui bandi e sul modello di business, col rischio di presentarsi in un ecosistema che ha 'pesato' il prodotto scoprendo che è importante ma non unico.

I circa 6,8 milioni di individui medi dichiarati da DAZN su tutta la stagione, al netto delle discussioni sul valore di questa rilevazione, bastano per considerare quota un miliardo di euro la base di partenza? O il bacino si è ristretto e gli operatori, fatti due conti, potrebbero scoprire che si può anche farne a meno o fare a meno di svenarsi per ottenerlo?

Di sicuro in estate ci sarà qualche cambiamento. TIM e DAZN stanno discutendo su tempi e modi di una separazione parziale perché la partnership da 340 milioni per avere l'esclusiva sulle proprie piattaforme non ha reso all'operatore delle telecomunicazioni. Anzi. Sky e Amazon sono alla finestra e il futuro potrebbe assomigliare al passato più di quanto non si immagini oggi.

L'altra certezza è che i prezzi per gli utenti sono destinati a salire. DAZN ha già annunciato la fine dell'era della doppia utenza, dopo il blitz fallito prima di Natale per cancellarla da subito. Dunque si pagherà di più per poter usufruire allo stesso modo dello stesso prodotto, oppure cifre simili ma per vedere meno. Mettendo una pietra tombale sull'idea che il calcio in streaming potesse essere a prezzo stracciato. Accade in un contesto economico di grande fibrillazione per le famiglie italiane, alle prese con inflazione e rincari a tre cifre percentuali delle bollette e della spesa. Il calcio in tv, insomma, potrebbe non essere più un bene primario al quale non si rinuncia.

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