Il saccomannismo

Chetare le ansie, stemperare i conflitti, bagnare le polveri: Fabrizio Saccomanni era stato scelto allo scopo di dare fiducia, bastava osservare il suo linguaggio del corpo per stare tranquilli. Un pacioso paciere. Melomane (non perde un concerto dell’Accademia filarmonica), a fabile, gran barzellettiere con un’ironia tutta romana, lo chiamano per nome anche giornalisti che gli sono stati vicini nelle tediose routine della diplomazia economica. Passata la tempesta, «perché la crisi globale è finita» (lo ha annunciato sicuro in tv), è sufficiente tenere la barra dritta e, senza troppi sussulti, la navicella passerà tra Scilla e Cariddi. Così, il nocchiero Saccomanni ha cominciato la sua navigazione con un faro europeo, il deficit pubblico sotto il 3 per cento, e due punti cardinali nazionali: meno spese e meno tasse. Ma, al momento di presentare in Parlamento la sua prima legge di stabilità, ha scoperto che il triangolo magico è un’illusione (la Lega ha chiesto martedì 29 le sue dimissioni).

Per racimolare risorse, tira fuori dal cilindro una sorta di tremontiano rimpatrio di capitali, più la vendita di una tranche dell’Eni e (udite, udite) la privatizzazione della Rai. In verità, davanti a Fabio Fazio precisa che l’azienda resterà pubblica. Non c’è da farsi illusioni, i contribuenti continueranno a pagarla due volte: con le imposte sul reddito e con il canone. Si tratta, semmai, di vendere qualche quota di una società il cui deficit (245 milioni nel 2012) viene ripianato dal Tesoro. Un altro fuoco fatuo, mentre i fuochi, quelli veri, continuano a bruciare.

Ogni banchiere centrale finito sulla poltrona di Quintino Sella è stato scelto per le sue qualità tecniche e per garantire qualcuno. Guido Carli al Tesoro rassicurava l’alta finanza internazionale mentre cadeva il Muro di Berlino. Non controllò il bilancio pubblico, ma firmò il trattato di Maastricht. Carlo Azeglio Ciampi doveva preparare l’Italia all’euro. Tommaso Padoa Schioppa venne preso per controbilanciare Rifondazione comunista. Saccomanni garantisce il presidente della Bce Mario Draghi, con il quale è in sintonia anche personale, e in più ottiene un risarcimento perché gli è stata negata la poltrona di governatore della Banca d’Italia, alla quale teneva più di ogni altra cosa. Il suo sponsor è Giorgio Napolitano. La sua guida è la Bce. Tutto il resto lo fa da solo.

Ha mostrato il bastone appena messo piede in via Venti settembre cambiando i più alti funzionari, a cominciare dal ragioniere generale dello Stato. Solo costui conosce davvero i conti ed è in grado di far cadere qualsiasi ministro. Così, è arrivato Daniele Franco dalla Banca d’Italia. Però i dati restano sempre ballerini. Il debito doveva scendere, ma sale. Quanto al deficit, l’Italia è uscita dalla procedura d’infrazione e questo dovrebbe spingere gli investimenti: almeno 10-15 miliardi, annuncia Saccomanni. In realtà, il Paese torna sotto osservazione e l’agenzia Fitch minaccia di portare il rating a livello di spazzatura. Insomma, il governo ha il fiato sul collo. Tanto che deve arrivare dal Fmi un commissario, Carlo Cottarelli, per gestire la mitica spending review.

Con il passare dei mesi, Saccomanni, la forza tranquilla, comincia ad agitarsi. Firma un’altra manovra in linea con la lunga serie che dal 1978, quando è stata introdotta la legge finanziaria, ha sempre tartassato, mai risanato. Anche Fabrizio, così, si perde in una miriade di balzelli. Per non scontentare nessuno, scontenta tutti (tranne i dipendenti della «sua» Banca d’Italia, dove generosamento fa cancellare il blocco agli stipendi previsto per tutti i pubblici dipendenti). L’uomo delle certezze genera confusione. Perde l’ironico distacco. Diventa irritabile, permaloso. Interviene a ogni piè sospinto e non manca gli appuntamenti televisivi, come da Lucia Annunziata, amica di lungo corso, dove lamenta di non essere capito. E dalle colonne del Corriere della sera minaccia persino le dimissioni. Ma l’alfa e l’omega del saccomannismo si misurano sulla ripresa economica. Fedele alla propria immagine, l’annuncia ad agosto. Purtroppo l’Istat rivela che il prodotto lordo si è contratto ancora dello 0,3 per cento. Fabrizio insiste, ma viene beccato dall’Ocse e dall’Eurostat. Lui non ci sta. «Non è vero che mi hanno smentito» ribatte, e spiega: «Siamo tecnicamente in quello che si chiama punto di svolta del ciclo». Davvero? Dal G20 di San Pietroburgo smussa un po’: «Nel terzo trimestre prevediamo una stabilizzazione, che significa sempre una coesistenza di dati positivi e negativi, tipica dell’uscita da un ciclo». Adesso c’è la «coesistenza». Un po’ poco, allora promette: «Non cresceremo alla cinese, però potremo avere dei livelli sostenibili, vicini al 2 per cento l’anno». Boom.

Ricordarlo proprio a Saccomanni che conosce a memoria Giuseppe Gioachino Belli e si diletta in sonetti romaneschi non sembra il caso, eppure viene subito in mente «quer bon padre Curato tanto dotto» che «Riccontò ’na carretta de parabbole/ E cce ne fesce poi la spiegazzione/ Insomma, da la predica de jeri/ Ggira che tt’ariggira in concrusione/ Venissimo a ccapi’ che sso’ mmisteri?».

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