Il rebus dei certificati medici per chi fa sport

Prima un decreto legge (il 69 del 2013), poi le “Linee guida di indirizzo in materia di certificati medici per l’attività sportiva non agonistica” con cui, l’8 agosto 2014, il ministro della Salute Beatrice Lorenzin ha cercato di fare chiarezza sull'argomento. In mezzo il solito caos all’italiana, tra polemiche, distinguo e incertezze. Per capire qualcosa di più sui certificati medici sportivi, su chi sia tenuto a presentarli e chi sia abilitato a eseguirli, abbiamo chiesto lumi all’avvocato Stefano Massaro, amministratore delegato del Centro di Medicina dello Sport Delta Medica di Milano.

Il Ministero della Salute ha emesso le nuove linee guida per i certificati di idoneità alla pratica sportiva non agonistica: perché tanta complessità?

"E’ curioso che dietro a questa tematiche ci siano di continuo discussioni parlamentari e atti ministeriali: in realtà la materia è semplicissima. Essere fisicamente attivi fa bene, e fa bene a ogni età e in qualunque condizioni. Ciò che varia è la scelta dell’attività, la sua intensità e la sua compatibilità con le condizioni di salute. Potersi confrontare con un medico esperto su questi temi è un fatto positivo e con un potenziale enorme in una società progredita".

Perché allora sembra una questione più burocratica che sanitaria?

"Perché in Italia si parla di 'certificati' e non di visite, si parla di 'medici abilitati al rilascio' e non di medici capaci. Si parte da una eccellenza mondiale quale è la medicina sportiva italiana e si distrugge tutto seguendo sempre interessi di parte".

Può spiegarci meglio?

"Oggi l’ideoneità alla pratica sportiva non agonistica può essere valutata da:
1) medici specialisti in medicina dello Sport (ovviamente);
2) medici associati alla FMSI (Federazione Medici Sportivi Italiani), ancorché non specialisti. Questa è una figura a cui appartengono medici che negli anni hanno sviluppato competenze ed esperienza in ambito medico sportivo. D’un tratto, per proseguire la propria attività, questi medici hanno dovuto sostenere dei corsi (a pagamento e della durata di 30 ore, per professionisti che probabilmente esercitano da molti anni) e un esame finale il cui esito attribuisce l’iscrizione alla Federazione (con obbligo di pagare una fee annuale per farne parte). Per quanto antipatico possa dimostrarsi questo adempimento per medici che hanno speso una vita in questo ambito, ciò che veramente appare drammatico è che - ad oggi - i corsi siano stati avviati solo in Lombardia ed in Piemonte. Ne risulta che migliaia di medici esperti in tutto il paese, persino cardiologi di grande preparazione, oggi non sono burocraticamente titolati per proseguire l’attività svolta da una vita".

I certificati possono poi essere rilasciati anche da medici di medicina e pediatri di libera scelta...
"Infatti, ma limitatamente ai propri assistiti: questa è una norma che mostra in tutta la sua evidenza uno stampo medioevale. E’ fatta solo per lasciare a ciascuno un orticello da cui attingere. C’è da chiedersi infatti per quale motivo questi medici siano dispensati dal corso di 30 ore e dal test che ne assicuri la preparazione. Il giochino dialettico si fonda sul presupposto che il medico conosca a fondo lo stato di salute del proprio assistito, mentre è noto a tutti che in moltissimi casi ciò non è affatto vero. E ancora: perché se un medico di famiglia è molto esperto di materia medico sportiva dovrebbe limitare la propria competenza ai propri assistiti? Noi crediamo che l’unica imposizione dovrebbe essere il protocollo di visita da eseguire accompagnato all’obbligo di conservazione di una cartella clinica (che già esiste ma viene disatteso ovunque). Il medico deve assumersi la responsabilità della qualità degli accertamenti che esegue, il resto è roba da burocrati".

Perché se uno vuole fare sport deve essere costretto ad una visita medica?


"Per lo stesso motivo per il quale si indossa il casco in moto o si mettono le cinture di sicurezza in auto. Viviamo secondo un modello in cui il costo della salute dell’individuo ricade sul sociale, sulle tasse che tutti pagano. La prevenzione è il miglior modo per ridurre il costo sociale e nessuno può permettersi dire 'se mi viene un infarto, sono affari miei'. Se mai perdessimo il lusso di un welfare sociale e ognuno dovesse pensare a se stesso, solo in quel momento ciascuno potrebbe scegliere per sé. Oggi invece dobbiamo imparare a vedere la salute più come una responsabilità di ciascuno che solo come un diritto. Oggi il paziente cronico rappresenta una voragine di spesa per il Paese e la patologia cronica nasce in moltissimi casi da uno stile di vita scorretto protratto nel tempo. La vera sfida della medicina oggi deve essere quella di spostare le abitudini di vita degli individui per aumentare non l’aspettativa di sopravvivenza ma l’aspettativa di vita sana. E per riuscirci davvero, come da sempre facciamo nel nostro Centro, occorrono controlli basati sull'esecuzione di un elettrocardiogramma e sulla valutazione di medici competenti".

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