renzi
ANSA/MASSIMO PERCOSSI
News

Referendum, gli intoccabili a statuto speciale

"Un’accozzaglia". Con l’usuale perfidia, Matteo Renzi ha provato a marchiare il fronte del No. A guardar bene, però, tra i fan della riforma costituzionale s’è ormai delineato un guazzabuglio ben più eterogeneo e interessato: quello dei governatori delle vituperate Regioni a statuto speciale. Ex comunisti, già bersaniani, neorenziani, autonomisti di centrodestra, autonomisti di centrosinista: tutti, dalla Sicilia alla Val d’Aosta, sono compatti nell’indefesso sostegno al Sì. Per un motivo semplice. La Riforma Boschi toglie competenze alle 15 Regioniordinarie, ricentralizzando i poteri.

- LEGGI ANCHE: La riforma costituzionale in dieci punti

Queste modifiche però non si applicano alle cinque ormai antistoriche Regioni autonome. A meno di cambi statutari che prevedono una legge costituzionale "sulla base di intese con le medesime regioni". Un meccanismo pattizio che diverrebbe perpetuo. Lo Stato non potrebbe mai più intaccare le autonomie senza consenso preventivo. "Una fideussione perpetua" l’ha definita, nel silenzio generale, il costituzionalista Michele Ainis. "La riforma dello Stato genera cinque superStati".

I diretti interessati, dal canto loro, non hanno potuto che ratificare. Arrivando persino a firmare, il 7 ottobre 2016, la Carta di Udine. Un mefistofelico documento in cui quattro governatori "a statuto speciale" chiariscono ai loro cittadini che "la riforma costituzionale, grazie all’intesa, rafforza la nostra autonomia". "Stiamo andando nella direzione giusta" gioisce la padrona di casa, Debora Serracchiani, presidente del Friuli-Venezia Giulia, davanti ai giornalisti. Accanto alla vicepresidente del Pd, posano festosi gli omologhi delle Province autonome di Trento e Bolzano, Ugo Rossi e Arno Kompatscher, e quello della Sardegna, Francesco Pigliaru. "Finalmente abbiamo lo strumento dell’intesa" aggiunge Serracchiani. "Ci permetterà di essere ancora più forti".

Alleluja! Proprio quello che gli italiani speravano. All’incontro non partecipano gli altri due governatorissimi. Rolando Rollandin, alla guida della Valle d’Aosta, ufficializza il sostegno al referendum poco dopo. E rivela un particolare illuminante: ««Nel 2001 pure Silvio Berlusconi provò a rivedere la Costituzione. E, se vogliamo dirla tutta, quella riforma era molto più federalista di questa, che invece il federalismo lo accantona completamente. Ma la legge di Berlusconi, a differenza di questa, non contemplava la clausola dell’intesa. E noi dicemmo no». Rosario Crocetta, vicerè di Sicilia, annuncia invece il suo Sì il 27 ottobre 2016: il giorno prima, notano i giornali isolani, era arrivata l’approvazione in Consiglio dei ministri dell’accordo che dà alla Sicilia 1,8 miliardi di euro in più all’anno, riconoscendo entrate fiscali previste proprio dallo statuto isolano.

Eppure con le Regioni autonome lo Stato non ha mai lesinato. La media dei trasferimenti a livello nazionale è di 3.602 euro per abitante. In quelle a statuto speciale, però, la cifra lievita sensibilmente. Una sperequazione che, in caso di vittoria del Sì, potrebbe aumentare. Grazie a veti sempre più forti. Insomma, più spesa pubblica. In nome dell’inefficienza o della perpetuazione di privilegi. Esempio clamoroso è l’adozione dei costi standard previsti nella riforma. Ricordate la celeberrima siringa? In Sicilia arrivava a costare 60 centesimi. In Veneto appena 4. Oppure i dipendenti: sono 20.288 in Trinarcia e 2.664 al servizio del Leone di San Marco. Per non parlare dei mitologici forestali: 24 mila contro 610. Bene, se vincesse il Sì i veneti perderebbero indipendenza. I siciliani, invece, manterrebbero intatto il loro autogoverno. A meno di un’improbabile cessione di competenze da parte di suà maestà l’Assemblea regionale siciliana, la famigerata Ars: il parlamentino più sciupone e pagato del pianeta.

A proposito. Uno dei fiori all’occhiello dei sostenitori del Sì è il taglio degli stipendi di governatori e consiglieri. Non potranno più superare i compensi dei sindaci dei capoluoghi di Regione: poco più di 4 mila euro al mese. Sforbiciata sacrosanta. Che sfortunatamente non potrà applicarsi alle Regioni autonome: quelle con gli emolumenti più alti. Il presidente della Provincia di Bolzano guadagna 19.200 euro lordi al mese. In Sicilia può arrivare a 16.980. Mentre gli onorevolini dell’Ars, con il solito spirito di sacrificio, si accontentano di 14.280 euro.

Un altro ginepraio sono le Province. La riforma darebbe un taglio netto alla pasticciata e mai compiuta abolizione degli enti simbolo della burocrazia e dell’inefficienza italiana. Una legge talmente gattopardesca da essere diventata il surreale sfondo del film campione d’incassi Quo vado? di Checco Zalone, uscito un anno fa.

Con le modifiche volute dal premier, le Province invece saranno polverizzate: cassato ogni riferimento nella Costituzione. Cancellate, sparite, dissolte. Non ovunque però. Rimarrebbero ovviamente vive e vegete nelle sempreverdi Regioni a statuto speciale. Come in Sardegna: 1,6 milioni di abitanti e otto province, quattro coniate nel 2001. Già abolite a maggio del 2012 con un referendum, solo a gennaio del 2016 il consiglio sardo ha approvato il definitivo riordino. Spariscono gli otto enti. E vengono sostituiti da una città metropolitana, 4 città medie e 41 unioni di Comuni. Risparmi: nemmeno un centesimo. Caos: totale.

Anche in Sicilia si sono portati avanti. Dopo anni di discussioni tra gli stucchi di Palazzo d’Orleans, l’Ars ha legiferato. Via le nove province. Al loro posto nascono sei liberi consorzi e tre aree metropolitane. Personale, appannaggi, competenze: tutto come prima. Trento e Bolzano, invece, a cambiare non ci pensano nemmeno. Anzi, sono sempre più influenti. Tanto che il governo ha promesso di sbloccare il Patto di stabilità per le due Province del Trentino-Alto Adige: 1,4 miliardi da spendere entro il 2030. Concessione che si aggiungerebbe ai vantaggi già acquisiti. Lo Stato già trasferisce ogni anno 7.638 euro a ogni abitante della provincia di Trento. E 8.964 ai bolzanini: quasi il triplo della media nazionale.

C’è ancora un’ultima «gabola». L’ha scoperta il senatore leghista Roberto Calderoli. E minerebbe le basi di un cardine della riforma costituzionale: il nuovo Senato. Dovrebbe essere composto prevalentemente da consiglieri regionali. Carica che però, nei territori a statuto speciale, è incompatibile con quella di parlamentare. Per permettere il doppio incarico servirebbe una legge costituzionale suffragata dall’intesa con il governo. Ma almeno stavolta, c’è da giurarci, l’accordo sarebbe siglato ovunque senza patemi. Da Bolzano a Palermo, due poltrone sono sempre meglio di una.                  

YOU MAY ALSO LIKE