I marittimi di Mazara del Vallo sequestrati in Libia non sono eroi arruolati dalla stampa in nome di grandi ideali. E nessuno si muove.
Un lettore mi scrive: «I pescatori mazaresi prigionieri in Libia da settimane, dopo essere stati sequestrati in acque territoriali, sono, loro malgrado, la testimonianza di uno Stato allo sbando. Qualunque nazione avrebbe subito messo in opera i suoi migliori uomini delle forze speciali, per quei cittadini italiani che non sono secondi a nessuno, e sarebbe andata lì a prenderli».
Non so se qualsiasi nazione del mondo avrebbe schierato le teste di cuoio e organizzato un blitz per riportare a casa i propri pescatori. Qualche Paese certo avrebbe studiato un intervento militare dei reparti d’élite: Stati Uniti e Israele sono famosi per aver organizzato la liberazione dei propri cittadini anche in aree ad alto rischio. Di recente, una squadra dei Seal team six americani è andata a riprendersi un piccolo imprenditore che era stato rapito nella sua fattoria in Niger e Mike Pompeo, segretario di Stato, ha colto l’occasione per dire che gli Usa non abbandoneranno mai un loro cittadino preso in ostaggio.
Anche Gerusalemme è pronta a qualsiasi cosa pur di recuperare gli israeliani rapiti. Il raid di Entebbe, cioè la cosiddetta «Operazione Fulmine» con cui una squadra delle forze armate israeliane liberò gli ostaggi di un aereo partito da Tel Aviv (nel blitz morì il solo comandante delle teste di cuoio, il fratello di Benjamin Netanyahu), è nella memoria di tutti, a cominciare da terroristi e sequestratori.
Tuttavia, nonostante ci siano esempi di Paesi disposti a risolvere con la forza il rapimento dei propri concittadini, assumendosi rischi per l’incolumità stessa degli ostaggi, la maggior parte delle nazioni del mondo, per restare alla definizione del lettore, sceglie di trattare. Sì, all’intervento militare quasi tutti i Paesi occidentali preferiscono l’azione diplomatica, che poi altro non è che una trattativa sul riscatto da pagare per riavere indietro i rapiti.
Quasi sempre lo fanno in silenzio, negando di avere intenzione di mettere mano al portafogli. Un po’ perché se si dichiara apertamente di essere pronti a scucire milioni, il prezzo del rilascio sale. E un po’ perché far sapere all’opinione pubblica che si è disposti a compensare i criminali in cambio della libertà dei sequestrati non porta certo consensi. Ai tempi dell’Anonima sarda e dei primi rapimenti della ‘ndrangheta, politica e magistratura intervennero sui riscatti, vietandone il pagamento, e non di rado i giudici arrivarono a sequestrare i patrimoni delle famiglie degli ostaggi.
La strategia adottata fu certamente brutale ma efficace, perché dopo i primi colpi andati a vuoto, ossia i primi rapimenti senza che la banda riuscisse a riscuotere il malloppo, quei crimini si diradarono. Nonostante questo, ci furono anche casi in cui a pagare fu lo Stato, ovvero il ministero dell’Interno, che aggirando la legge e in perfetto silenzio mise mano ai fondi riservati, spedendo funzionari di polizia o dei servizi segreti a trattare con i rapitori.
Nel caso dei rapimenti all’estero, spesso in zone di guerra controllate dai tagliagole dell’Isis e di Al Qaeda, accade esattamente questo. Appena si ha notizia di un sequestro, i primi a muoversi sono i cosiddetti canali riservati, i quali cercano un contatto sul terreno, cioè un mediatore che lo metta in contatto con il gruppo criminale che ha in mano i rapiti. È successo decine di volte. In Italia è tuttora vietato pagare il riscatto, ma se il sequestro è fuori dai confini nazionali lo Stato paga.
Tranne rarissimi casi, che si contano sulle dita di una mano, i servizi segreti italiani hanno agito su ordine dei diversi governi che si sono succeduti versando milioni. Credo che nessuno sia in grado di stabilire quanto ci siano costate le varie Sofie, le Vanessa e Greta, le Sgrena, cioè quell’esercito di volontari del bene che è andato a ficcarsi nei guai in zone lontane, spesso convinti di essere immuni dalla violenza solo perché simpatizzanti o quasi nei confronti dei ribelli.
Vi chiedete che cosa abbiano a che fare i pescatori di Mazara del Vallo sequestrati in Libia con le Vanessa e Greta che hanno riempito le pagine dei giornali per anni? Niente. Assolutamente niente. Loro, i pescatori, non sono andati in Siria o nel Corno d’Africa in cerca di avventure o per aiutare i popoli che soffrono o lottano. A bordo di quei pescherecci ci sono saliti per portare a casa un po’ di soldi. La vita su una nave in mezzo al mare, tra le onde e la puzza di pesce, non è semplice. E tuttavia, quello era il loro lavoro, che oltre ai rischi di essere al largo, in balia di tempeste ed emergenze, certo non prevede il rischio di essere sequestrati.
Eppure, forse perché non sono eroi arruolati dalla stampa in nome di grandi ideali, di loro nessuno parla. Rapiti il primo settembre da un gruppo di uomini armati a bordo di una motovedetta del generale Khalifa Haftar sono detenuti a Bengasi. Io non credo, a differenza del lettore, che per liberarli l’Italia debba inviare in Libia le sue teste di cuoio. Tuttavia, penso che sia una vergogna che a distanza di oltre tre mesi quei 18 lavoratori non siano ancora stati portati a casa.
Haftar è stato spesso ricevuto con tutti gli onori a Roma e lo stesso possiamo dire dei suoi padrini politici, ossia del presidente egiziano Abdel Fatah Al Sisi e dei rappresentanti degli Emirati arabi. Possibile che dopo 100 giorni la diplomazia italiana non sia riuscita a trovare un canale per liberare quei rapiti? Davvero il nostro Paese conta così poco, nelle relazioni internazionali, da non riuscire neppure a ottenere la restituzione di 18 pescatori? Per Silvia Romano, la volontaria poi convertita all’islam, si è mosso il mondo e pure i milioni: chi si muove per 18 capifamiglia che non erano in cerca di gloria e neppure di guai?