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Perchè una Turchia fragile e divisa spaventa tutta l'Europa

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Un uomo cammina sotto una enorme bandiera curda durante la manifestazione a Parigi a sostegno delle vittime dell'attacco kamikaze ad Ankara
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La scena delle esplosioni ad Ankara, nel luogo, vicino a una stazione ferroviaria, dove stavano concentrandosi i manifestanti di una dimostrazione pacificsta, 10 ottobre 2015
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Proteste ad Ankara dopo la strage
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Protesta a Ankara dopo la strage
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Gli attivisti del Turkish Labour Party (EMEP) manifestano ad Ankara - 11 ottobre 2015
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La manifestazione ad Ankara dopo l'attacco kamikaze del 10 ottobre
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Una donna porge un bouquet di fiori a un poliziotto ad Ankara - 11 ottobre 2015
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La manifestazione ad Ankara dopo l'attacco kamikaze del 10 ottobre
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Il dolore sulla bara di Korkmaz Tedik, esponente del partito dei lavoratori turco (EMEP) ucciso nell'attentato kamikaze a Ankara - 11 ottobre 2015
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La manifestazione a Parigi a sostegno delle vittime dell'attacco kamikaze ad Ankara
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La manifestazione dei parenti delle vittime dell'attentato kamikaze ad Ankara durante i funerali a Istanbul - 11 ottobre 2015
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Una parente di una delle vittime dell'attentato kamikaze ad Ankara - 11 ottobre 2015
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Una donna sul luogo dell'attentato che 24 ore prima ha causato una strage in una manifestazione pacifista a Ankara, Turchia, 11 ottobre 2015
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La scena delle esplosioni ad Ankara, nel luogo, vicino a una stazione ferroviaria, dove stavano concentrandosi i manifestanti di una dimostrazione pacificsta, 10 ottobre 2015
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La scena delle esplosioni ad Ankara, nel luogo, vicino a una stazione ferroviaria, dove stavano concentrandosi i manifestanti di una dimostrazione pacificsta, 10 ottobre 2015
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La scena delle esplosioni ad Ankara, nel luogo, vicino a una stazione ferroviaria, dove stavano concentrandosi i manifestanti di una dimostrazione pacificsta, 10 ottobre 2015
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La scena delle esplosioni ad Ankara, nel luogo, vicino a una stazione ferroviaria, dove stavano concentrandosi i manifestanti di una dimostrazione pacificsta, 10 ottobre 2015
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La scena delle esplosioni ad Ankara, nel luogo, vicino a una stazione ferroviaria, dove stavano concentrandosi i manifestanti di una dimostrazione pacificsta, 10 ottobre 2015
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Proteste a Ankara dopo la strage islamista
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Una manifestazione ad Ankara per ricordare le vitime della follia islamista
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1 maggio ad Ankara, Turchia, nel 2012

La deriva turca fa paura. E non solo per il sangue versato di almeno 128 morti, per lo più giovani, nell’ultimo attentato kamikaze a Ankara. No, fa paura perché nasce dalla crescente fragilità di un regime che non accetta di appannarsi. Tayyp Erdogan punta da anni a conquistare la maggioranza assoluta dei consensi in un Paese che fino al suo avvento vantava un DNA secolare inscritto nella Costituzione. Il nome di Kemal Ataturk, fondatore della moderna Turchia, significa libertà, laicità, modernità. Nei primi anni di governo, Erdogan aveva dato l’impressione di poter contenere nel suo partito islamista gli eccessi integralisti di parte della società turca.

L’economia è cresciuta, le libertà sono state rispettate, le forme laiche di vita quotidiana hanno convissuto col velo che pian piano si abbassava sul volto di molte donne. La Turchia profonda, quella islamica, continuava a far emergere periodicamente l’efferatezza dei delitti d’onore, del pugno di ferro dei padri-padroni su figlie e madri schiavizzate.
Fino alla relativamente recente deriva autoritaria del regime di Erdogan, si trattava di delitti confinati a nicchie islamiste estreme dal main stream, dal corso principale, dalla direzione storica, europea, della Turchia moderna.

La fragilità finisce sempre con l’alimentare fanatismo e fondamentalismo, l’appello identitario anche religioso. Abbiamo assistito a una metamorfosi estremista di Tajjip Erdogan. Fa fede la decisione di chiudere un occhio davanti ai rifornimenti di armi e armigeri (i foreign fighter) attraverso l’esteso confine con la Siria sconvolta dalla guerra civile e dall’avanzata dell’Isis.

Erdogan ha tentato di destreggiarsi in una qualche equidistanza (o distanza) da Israele con cui la Turchia laica aveva instaurato proficui rapporti di collaborazione. Si è gradualmente allontanato dall’Europa (che aveva commesso il madornale errore, ancora una volta sull’onda dello sciovinismo francese, di sbarrare  la porta all’ingresso di Ankara nella UE). È rimasto nella NATO, ma non partecipa alla coalizione contro il Califfato se non parzialmente, da quando l’Isis ha commesso un orribile attacco ai civili entro i confini turchi, quasi alla frontiera con la Siria. Ma anche qui, l’aviazione turca martella non le postazioni dell’Isis ma quelle dei curdi, nemici storici ma grandi alleati dell’Occidente nel contrasto al Califfato.

Le pulsioni laiche si scontrano con quelle islamiste, in Turchia. Si diffonde la sfiducia nei confronti del regime, la diffidenza che ha ingenerato perfino sospetti sulle responsabilità governative negli attentati. E i curdi moderati, che si sono forgiati un partito che pesa potenzialmente per oltre il 10 per cento, si ritrovano oggi a dover gestire il rapporto con un regime che bombarda i fratelli curdi in Siria.

Nel frattempo, sulla libera stampa si abbatte il maglio della repressione, con giornalisti incarcerati per un tweet e fogli d’opposizione che stentano a restare in vita. Erdogan si sta avvitando, tanto più che nelle ultime elezioni ha perso consensi, e che i curdi da cui si aspettava un aiuto hanno chiaramente optato per votargli contro. Erdogan è un leone ferito, che lotta per mantenere lo scettro di un Paese dalle tante anime. Capita inoltre che questo Paese, così instabile oggi, sia un pilastro necessario della stabilità dell’intero Medio Oriente e del Mediterraneo.

In sintesi: il primo errore l’ha commesso l’Europa a isolare la Turchia e disarmare così il principale a-tout dei laici, il pieno ingresso in Europa. Il secondo grande errore l’ha commesso Erdogan nel momento in cui ha manifestato tutto il suo attaccamento al potere e la determinazione a non lasciarlo mai più. E se pensiamo che la Turchia è, dovrebbe essere, un baluardo rispetto allo tsunami islamista dell’Isis, è giusto che ci tremino le vene nei polsi.

Una Turchia fragile e dilaniata da lotte intestine è il peggio che possa capitare oggi, nel martoriato scacchiere mediorientale. E né gli Stati Uniti fautori con Obama della politica del disimpegno spacciato per guida dalle retrovie, né un’Europa dalle tante teste ma senza cervello, potranno soccorrere i cugini turchi che si avviano, forse inesorabilmente, verso lo scontro fratricida.  

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