Penelope Curtis: "La mia Tate Britain farà scuola"

Una delle tante vittime della crisi è stata, e continua a essere, in Italia la politica culturale. Ma altrove c’è qualcuno che considera quello dei beni artistici un investimento strategico. Come il governo inglese, che per la Tate Britain ha definito un piano di sviluppo ventennale, chiamato Millbank project, per la prima fase del quale è riuscito a raccogliere 45 milioni di sterline (52 milioni di euro). Panorama incontra Penelope Curtis, che dal 2010 è la direttrice della Tate Britain di Londra.

Quale obiettivo si è data quando ha preso in mano il timone della Tate Britain?
Quello di esporre arte inglese, ma di farlo mostrando come il passato parli al presente e come, se diamo valore al passato, questo poi possa influenzare il nostro futuro.

Il suo museo ideale?
Un edificio gradevole, illuminato da luce naturale, con un meraviglioso allestimento. Un luogo senza troppe informazioni, solo quelle che servono, e con un giusto numero di visitatori. Non troppi, quindi.

Crede che i grandi musei possano giocare un ruolo nella crisi europea?
A un certo livello i musei devono essere luoghi di familiarità, cioè qualcosa di rassicurante per le persone. Ma allo stesso tempo devono rappresentare il cambiamento e la capacità di ripensare le cose. Per esempio, ora alla Tate abbiamo una mostra dedicata a Kurt Schwitters, che arrivò in Gran Bretagna dalla Germania nazista dopo aver trascorso un periodo in un campo di prigionia e qui visse una stagione di grande produttività creativa. Lo scorso anno abbiamo ospitato una mostra sull’idea di emigrazione e dedicata agli artisti stranieri presenti nelle collezioni inglesi. L’idea di crisi tocca anche la collezione permanente. Mettiamo in luce le opere che rappresentano problemi come l’identità, lo status di una persona, o la perdita delle proprie radici. A volte si tratta solo di piccoli cambiamenti nella disposizione delle opere, che però fanno da contrappunto al dovere di cui dicevo, ovvero quello di rassicurare.

A parte la Tate, dove trova più ispirazione?
Non riesco a scegliere un luogo, dipende dallo stato d’animo in cui mi trovo.

Come si immagina la Tate fra 10 anni?
Dovrà contare meno sulle risorse pubbliche e più su quelle private. Il che, in Gran Bretagna, significa in egual misura rischi e opportunità. I cittadini conoscono i problemi che comporta innestare il modello americano su quello europeo. Si tratterà quindi di osare di più e, soprattutto, di avere collezioni in grado di rappresentare più persone, più luoghi e più modi di fare arte.

In che percentuale il governo inglese sostiene la Tate?
Per il 40 per cento.

Musei pubblici: accesso gratuito o a pagamento?
La questione è annosa, però da noi i musei sono gratuiti e vorremmo riuscire a mantenerli tali.

Attualmente l’arte contemporanea ha più pubblico di quella antica e il mercato riflette questa situazione. Come spiega questo fatto?
C’è più arte contemporanea da comprare, si tratta di un investimento più semplice, artisti e gallerie sono molto attivi nella promozione di sé. La cosa migliore sarebbe unire le forze, anche perché gli artisti di oggi si sono formati proprio sulle collezioni antiche.

Crede che musei e mercato debbano essere più indipendenti l’uno dall’altro o più integrati?
L’integrazione è sempre maggiore. Se si presta la dovuta attenzione ai conflitti di interessi, questo può risultare un vantaggio per entrambi.

Come giudica i musei italiani?
L’Italia è il Paese nel mondo dove ci sono più antichità per metro quadrato. Si tratta di una ricchezza eccezionale. I musei sono molti, ma, ovviamente, non tutti alla stessa altezza.

Cosa ne pensa del Google art project?
La Tate è stata una delle grandi istituzioni museali ad aderire al progetto, quando è stato lanciato due anni fa. Ma credo che il passo sia stato fatto tenendo gli occhi ben aperti.

Ritiene che i social network siano un’opportunità anche per la cultura alta?
Lo sono di certo. A tutti interessa parlare dei capolavori e condividere le proprie idee a riguardo.

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