Un particolare della copertina di "Una somma di piccole cose" di Niccolò Fabi
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Musica

Niccolò Fabi: "Il suono è uno stato d'animo"

Incontro Niccolò Fabi a poche ore dalla pubblicazione del suo nuovo disco "Una somma di piccole cose" (nei negozi da oggi, venerdì 22 aprile). Ha tante cose da raccontare. "Piccole", forse, come lascia intendere con il titolo del suo album, ma decisamente importanti. Per questo nuovo lavoro - che arriva dopo l'esperienza con gli amici Silvestri e Gazzè - Niccolò Fabi non ha voluto strafare. Niente titoli d'effetto, nessuna dichiarazione particolarmente shoccante. Il suo è un racconto sincero e delicato della realtà intorno a lui.

In "Una somma di piccole cose", Fabi racconta della semplicità della vita in campagna, dell'importanza dell'ambiente in cui viviamo e - in sintesi - dell'uomo che tante volte si dimentica di quello che è davvero essenziale.

Hai registrato questo disco in una casa di campagna. Come è andata?

La registrazione in campagna è un grande classico. Un contesto come questo esalta un certo tipo di atmosfere musicali. C’è un isolamento sufficiente per lasciarsi andare. C’è una sensazione di solitudine e allo stesso tempo di protezione nella natura. La speranza era quella di tirare fuori in maniera ancora più precisa e spudorata alcune cose e quindi poi dare una veste sonora che non avesse nessun tipo di distrazione rispetto al racconto. Il suono è uno stato d’animo preciso.


Questo lavoro sembra fregarsene di tante dinamiche. Si percepisce un gran desiderio di libertà espressiva. È così?

Sì, tutta la vita è una ricerca per difendere la propria libertà. Fare le cose che ti fanno stare bene. Quindi registrare un disco e scrivere canzoni così, pubblicare come copertina una fotografia fatta col telefonino alle sette di mattina perché sembrava che fosse bello il panorama, toglie tutti i pesi dell’aspetto professionale, toglie tutte le aspettative. Porta a dare il massimo rispetto al privilegio che si ha quando si fa un lavoro del genere. Questo estremo passo di libertà lo devo a me e a chi mi ascolta.

Anche dal punto di vista musicale hai vissuto questa libertà?

Sì, da produttore musicale ho la sensazione che il mio tipo di linguaggio avesse bisogno – per essere ancora più potente dal punto di vista emotivo - di essere ancora più libero. Non volevo che ci fossero cose che distraessero. A livello musicale volevo che tirasse fuori una parte comunicativa di me, estremizzando cose di me che solitamente non metto troppo nei miei dischi. È anche vero che in questo disco ci sono più sicurezza e maturità, intese come identità.

Sei da sempre attentissimo al significato delle parole. Cosa significa per te scrivere? Può avere un’incidenza culturale quello che si scrive? Ci troviamo spesso di fronte a testi che non lasciano nessun segno…

L’ascolto in questo caso non è per tutti uguale. Tendenzialmente nella natura degli esseri umani, le donne sono più attente all’aspetto del linguaggio. Noi uomini inizialmente abbiamo una percezione più generale e musicale che testuale. Le donne invece fanno sempre più attenzione alle parole. È probabilissimo che un uomo dopo l’ascolto di questo album mi dica “Che bello l’uso di quel rullante! Che bel sound in quel brano! Mi ricorda Bon Iver”. Mentre una donna è più facile che dica “Quella frase mi ha massacrato”.

E così tenti di raggiungere un compromesso...

Esatto. Essendo maschio e, quindi, risentendo in qualche modo anche di questo, cerco di scrivere parole che riescano ad essere significative ma che allo stesso tempo riescano ad avere un suono, una melodia che ti possa far ascoltare quella canzone anche senza soffermarti sulle parole. È il disco più strumentale che io abbia mai fatto, nel senso che puoi metterlo come sottofondo e – al di là di quello che dico – ti crea uno stato d’animo che, se ti va di sentire in quel momento, ti è di compagnia. Ci sono alcuni cantautori che se non senti il significato delle loro parole sono noiosi. Io sono legato ad un cantautorato americano che crea un’atmosfera musicale evocativa, al di là delle parole.


Il singolo Ho perso la città, ha un video molto emblematico. Critichi la qualità di vita che c’è nelle città oggi. Da dove ti è nata la necessità di parlare di questo tema? L’attenzione all’ambiente non ti ha mai abbandonato, ritorna spesso nei tuoi lavori.

È una canzone strana per me. Ha un linguaggio un po’ diverso rispetto alle altre canzoni. Ha un linguaggio più fotografico e meno emotivo rispetto alle altre. È più descrittiva. Per questi motivi è un estremo in questo disco. Mi piaceva metterla. Mi piaceva l’idea di chiedermi: “Perché sto bene qui in campagna? Cosa manca alla città?”. Così ho fatto questa canzone che la descrive. Spero che non venga vista come una caricatura delle cose che non vanno in una città.

Quali sono gli elementi più critici da questo punto di vista?

Le metropoli hanno tutte alcune cose che paurosamente si somigliano. Nell’architettura ma non solo. È qualcosa di bellissimo ma allo stesso tempo drammatico. A livello di personalità stiamo uniformando tutto il mondo a un certo tipo di standard estetico, tralasciando invece un aspetto più umano. Dimentichiamo che possiamo vivere in un organismo sociale che ci supporta, che ci sta a fianco. Manca sostanzialmente il senso di comunità.

Quindi parlare dell’ambiente è forse anche un pretesto per parlare dell’uomo che agisce in questo particolare contesto?

Esatto. È anche un pretesto per parlare di come non lo considera più come interlocutore privilegiato, mentre in una società contadina e rurale l’ambiente rimane un interlocutore da cui può dipendere la mia felicità. Molto concretamente, se la grandine di quest’anno non mi fa nascere le zucchine, per me coltivatore questo è un problema. Oggi non è più un problema. Si è andati oltre. Tutte queste sono cose che diamo per scontate, ma non lo sono.

Vieni da una collaborazione molto intensa con Gazzè e Silvestri. Cosa hai trattenuto di più da questa esperienza? Come ti ha influenzato – se ti ha influenzato – il lavorare con loro nel tuo processo di scrittura di questi ultimi mesi?

In questo disco c’è tanto della nostra esperienza, che ci ha dato tantissimo a tutti e tre. Anche solo per il divertimento che ci ha portato. Poi, per quanto riguarda il nostro percorso individuale ci ha dato maggiore stimolo per tornare alle nostre canzoni, partendo proprio dal ruolo che avevamo all’interno del gruppo. Ognuno di noi aveva un ruolo nella scaletta: abbiamo messo a disposizione i nostri brani per lo spettacolo. Così è finita che le canzoni in cui bisognava fare coinvolgimento e allegria erano quelle di Max, i momenti più descrittivi e di narrazione erano quelli di Daniele, i momenti più sentimentali erano i miei. Forse ognuno di noi ora ha sviluppato di più questa parte che aveva avuto negli show.

Presto invece sarai in tour con una formazione nuova. Puoi anticiparci qualcosa?

Abbiamo già iniziato a fare le prove con questo gruppo torinese che fa riferimento ad Alberto Bianco, un cantautore che già stimavo tanto e che ho ascoltato a Roma. Quando ho capito che il mio gruppo storico con cui suonavo in questi ultimi anni era affaccendato in troppe cose per poter mettere la testa sulle mie, condividendo con loro questa scelta ho capito che forse a questo giro era meglio fare in maniera diversa. Ho ripensato alla serata in cui ho visto live Alberto e ho rivissuto quell’entusiasmo di un gruppo di giovani che per fortuna – ancora privi di esperienza e abitudine – amano farsi kilometri in furgone per andare a suonare in giro, e la vivono come la cosa più bella del mondo. Mi nutro molto di quel tipo di entusiasmo e di gioia. Mi sembrano i compagni perfetti per fare questo viaggio insieme!

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