La Nba schiera la lotta al razzismo per bannare Trump

La protesta delle star della Nba che ha costretto la lega a fermare i playoff e tutto il mondo ad assistere all'immagine di un campo vuoto con i giocatori barricati negli spogliatoi, ha rapidamente fatto il giro del globo uscendo dall'ambito sportivo per entrare in quello politico e sociale. Un pugno nello stomaco dell'America e del mondo. Una presa di posizione a due mesi dalle presidenziali Usa che non può non avere piani di lettura differenti e paralleli.

Non deve sorprendere che la Nba, ovvero lo spettacolo sportivo planetario per definizione (Olimpiadi escluse) si sia mosso con tale forza e determinazione. I segnali c'erano già stati in passato e nelle ultime settimane i giocatori avevano preteso e ottenuto dal commissione Adam Silver di portare dentro la bolla di Orlando e dentro le case di tutto il mondo il motto 'Black lives matter'. Attività social, magliette, scritte sui parquet e portate nelle case di centinaia di milioni di appassionati negli States e fuori. Un'imponente opera si sensibilizzazione senza la quale, probabilmente, il circo della Nba non si sarebbe rimesso in moto per cercare una via d'uscita alla pandemia chiudendosi a Disneyworld per celebrare la parte finale della stagione.

Epa

QUANDO LO SPORT USA SI RIBELLA AL RAZZISMO

Era già successo in passato nello sport a stelle e strisce che resta fondamentalmente un movimento nero, nel senso di afroamericano. Nel basket, ad esempio, con il suo 75% di atleti neri o in buona parte del football e in tante figure che ne hanno scritto la storia. Jesse Owens e le sue medaglie d'oro sotto gli occhi di Hitler a Berlino nel '36 è entrato nella leggenda. Il pugno chiuso di Tommie Smith e John Carlos sul podio dei Giochi di Città del Messico nel 1968 hanno attraversato più epoche.

Il rifiuto di Muhammed Alì di arruolarsi per il Vietnam in nome della lotta di razza ("La mia coscienza non mi permette di andare a sparare a mio fratello o a qualche altra persona con la pelle più scura... Non mi hanno mai chiamato 'negro', non mi hanno mai linciato, non mi hanno mai attaccato con i cani, non mi hanno mai privato della mia nazionalità, stuprato o ucciso mia madre e mio padre") gli costò la prigione e il titolo Mondiale fino a successiva riabilitazione.

LA QUESTIONE TRUMP

Questa volta, però, la mobilitazione entra direttamente nella vita politica degli Stati Uniti a due mesi dal voto per la presidenziali, con Trump attaccato e contestato ma sempre saldamente avanti nei sondaggi. La star assoluta della Nba, LeBron James, lo ha scritto nel modo più diretto e chiaro possibile nei minuti della rivolta: "FUCK THIS MAN!!!! WE DEMAND CHANGE. SICK OF IT". Tutto maiuscolo, senza mettere nome e cognome del destinatario ma con un riferimento evidente all'inquilino della Casa Bianca e alle sue politiche.

LeBron James ha 47 milioni di followers su Twitter e 71 milioni su Instagram. Un peso nemmeno comparabile a quello di Colin Kaepernick, quarteback di San Francisco protagonista nel 2016 del gesto di inginocchiarsi al momento dell'inno che gli costò l'attacco personale da parte di Trump, l'accusa di tradimento e di fatto la chiusura della carriera. O rispetto a Craig Hodges, giocatore nero dei Chicago Bulls che si presentò al cospetto del presidente Bush in abito tipico africano e con una lettera per chiedere "come discendente degli schiavi" il miglioramento delle condizioni di vita degli afroamercani negli Usa, attraversati dalle tensioni per il pestaggio di Rodney King da parte di agenti della polizia di Los Angeles poi assolti.

La differenza rispetto ad allora è nella risposta del sistema. Il commissioner della Nba si è schierato al fianco dei giocatori. Lo stesso hanno fatto proprietari, commentatori e analisti. Tutti legati da un filo che parte dalla bolla di Orlando e arriva fino alla Casa Bianca. Quanto possa incidere la discesa in campo della Nba e dello sport americano contro Trump è presto per capirlo. In passato i grandi gesti di protesta hanno spesso portato cambiamenti senza, però, riuscire ad entrare direttamente nelle stanze del potere. E' la sfida lanciata oggi nel nome di George Floyd e Jacob Blake: contro il razzismo e contro il nemico comune che si chiama Donald Trump.

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