Home » Nati con le microplastiche

Nati con le microplastiche

Nati con le microplastiche

Frammenti di queste sostanze sono state rilevate, in uno studio italiano, persino nella placenta materna. E, in media, ne ingeriamo 90 mila particelle l’anno. Originate dagli alimenti, dalle auto, dai vestiti…


Ogni settimana, ciascun essere umano ingerisce in media 1.769 particelle di microplastica, l’equivalente di 5 grammi, semplicemente bevendo acqua. Facendo un rapido calcolo, significa che ingeriamo, ogni anno, qualcosa come 90 mila microparticelle di plastica nascoste in un bicchiere.

Lo studio che lo sostiene è dell’Università di Sidney, ma non è l’unico. Secondo molte altre indagini, la plastica invisibile è presente nel sale, nel pesce, nei cosmetici, negli abiti, nei contenitori. Una «compagna» fedele della nostra vita quotidiana. Persino prima ancora di venire al mondo. A dirlo, questa volta, sono i ricercatori dell’ospedale Fatebenefratelli di Roma che, per primi al mondo, hanno individuato tracce di microplastica nella placenta umana. Lo studio è stato pubblicato su Environment International dopo una sperimentazione guidata da Antonio Ragusa (che sul tema ha scritto il libro Nati con la camicia di plastica, edito da Aboca), direttore dell’Unità operativa complessa di ostetricia e ginecologia dell’ospedale, in collaborazione con l’Università Politecnica delle Marche. «La ricerca ha testato campioni di urina per la presenza di sostanze chimiche usate negli imballaggi alimentari in plastica monouso, ovvero ftalati e fenoli» spiega Ragusa a Panorama. «Questi componenti aumentano il rischio di cancro e malattie cardiovascolari, oltre a influenzare il sistema riproduttivo e immunitario. Abbiamo individuato in media 20,5 sostanze chimiche».

Lo studio ha analizzato le placente di sei volontarie sane che hanno avuto un parto vaginale presso il dipartimento di Ostetricia e Ginecologia dell’ospedale. Le donne scelte non erano fumatrici né bevevano alcol, non seguivano particolari diete e non assumevano antibiotici né farmaci che potessero influenzare l’assorbimento intestinale (da due settimane prima del parto). Infine, non avevano subìto trattamenti dentali ed è stato loro chiesto di registrare l’utilizzo di dentifrici o cosmetici nella fase precedente allo studio clinico.

«È stato un lavoro davvero impegnativo» dice Ragusa «ma il risultato ottenuto conferma ciò che da tempo era una sensazione presente in molti medici e reparti di ostetricia di mezzo mondo. Mediamente un adulto assume con gli alimenti almeno 50 mila particelle di microplastica all’anno e i bambini 40 mila, secondo una recente ricerca su Environmental Science and Technology. Ma è probabile che il numero reale sia molto superiore, poiché in quell’indagine è stata analizzata solo una ristretta selezione di cibi e bevande, valutando appena il 15 per cento dell’apporto calorico quotidiano». I ricercatori del Fatebenefratelli hanno condotto lo studio adottando un protocollo «plastic free» e questo, afferma Ragusa, è stato uno dei passaggi più complicati dell’esperimento. I guanti di ostetriche e medici, così come gli asciugamani in sala parto, per esempio, erano in cotone. Il cordone ombelicale è stato tagliato con forbici metalliche. In totale, i ricercatori hanno rilevato 12 campioni di microplastiche nella placenta di quattro delle sei donne. Difficile per ora capire quali conseguenze ci siano sul feto, una delle ipotesi è che ciò possa agire sul sul sistema immunitario. «La plastica incide sul metabolismo dei grassi. Essendo la placenta un organo non materno, facile che ci possano essere tracce anche negli organi del neonato, che quindi non sarebbe più composto solo da cellule umane, ma sarebbe un misto tra entità biologica e entità inorganiche: un cyborg bimbo».

Non solo. Un esperimento austriaco del luglio 2020 ne ha rilevato tracce anche nel cordone ombelicale. E, qualche giorno fa, uno studio della New York University School of Medicine ha rilevato nei neonati quantità di microplastiche 10 volte maggiori rispetto agli adulti. Da dove viene tutta questa plastica «occulta»? In realtà, le contaminazioni cui siamo sottoposti sono moltissime. Un esempio: dei 300 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica prodotti ogni anno, circa 10 milioni finiscono negli oceani (l’equivalente di un camion carico di spazzatura al minuto). Nel solo Mediterraneo galleggiano 500 mila tonnellate di rifiuti plastici, che rappresentano l’80 per cento della spazzatura presente in mare, e impiegano dai 500 ai mille anni per degradarsi: un serio problema per le specie marine e anche per l’uomo, dal momento che la plastica entra nella catena alimentare.

«Uno studio del 2020 ha provato che il Tirreno è il mare più inquinato da microplastiche al mondo con 1,9 milioni di frammenti per metro quadrato» dice Eva Alessi, responsabile consumi sostenibili del Wwf. «Senza contare il danno all’ecosistema marino, con molte specie che scambiano questo “intruso” per una preda, come accade di frequente alle tartarughe che ingeriscono pezzi di sacchetti perché assomigliano a meduse». Secondo i ricercatori dell’Università di Queensland, Australia, il 52 per cento delle tartarughe ingerisce plastica, e questa sarebbe uno delle principali cause di morte per una specie a rischio di estinzione. Anche perché un sacchetto di plastica per degradarsi impiega dai 10 ai 30 anni, ma in realtà non sparisce del tutto visto che si trasforma in piccoli frammenti che si depositano sui fondali.

Secondo l’Istituto per la ricerca e la protezione ambientale, circa il 73 per cento delle specie che vivono in mare e oceani contiene microplastiche, che poi finiscono nei nostri piatti. Persino una semplice tazza di tè può contenere fino a 3,1 miliardi di nanoplastiche (ancora più piccole). Lo affermano ricercatori della McGill University che hanno scoperto numerose tracce di queste sostanze rilasciate dalle bustine; nell’acqua calda i sacchetti scaricano miliardi di particelle, migliaia di volte superiori rispetto a quelli presenti in altri alimenti e bevande. Ma, come spiega Alessi, in realtà i sacchetti non sono i maggiori responsabili. «La maggior parte della plastica in mare deriva dalle fibre sintetiche dei vestiti rilasciate nell’ambiente durante il bucato in lavatrice. Basti pensare che per ogni lavaggio, vengono dispersi circa un milione di fibre sintetiche».

Anche i prodotti di cosmesi sono ricchi di microplastiche e persino i milioni di auto che circolano sono indirettamente causa di inquinamento nei mari. Secondo Andreas Stohl, ricercatore del Norwegian Institute for air research, ogni anno si depositano 550 mila tonnellate di particelle più piccole di 0,01 mm derivanti dai pneumatici delle vetture (un autobus di grande dimensioni ne rilascerebbe circa 65 grammi al giorno); di queste, la metà finisce negli oceani e più di 80 mila tonnellate ricadono in aree remote, come le montagne e perfino l’Artico.

Un problema cronicizzato: come materiale diffuso nel mondo, la plastica è al terzo posto dopo cemento e acciaio. Dagli anni Cinquanta ne abbiamo prodotto circa 9 miliardi di tonnellate, di cui 6,3 liberati nell’ambiente. «Dopo l’età della pietra, del rame, del bronzo e del ferro» conclude Ragusa «oggi siamo in piena età della plastica». E difficilmente ne usciremo.

© Riproduzione Riservata