L'esecutivo Draghi riporta gli anni Novanta. E tecnici tutti di centrosinistra

Visto in filigrana il governo Draghi ci mostra scommesse, regolarità ed incrinature del sistema politico italiano. Il fatto politico più rilevante di questa fase è senza dubbio l'ingresso della Lega in maggioranza e al governo. Quella della dirigenza leghista è una scommessa sulla possibilità di essere riconosciuti come forza di governo stabile e non pericolosa per la vita della moneta unica. L'obiettivo di lungo periodo è quello di diventare un partito di destra di sistema facendo da contraltare al Partito democratico sia nei tavoli internazionali che nelle profondità dello Stato. Questo è quello che tutti hanno notato e che ha gettato nello scompiglio gran parte della sinistra, costretta ad allearsi con l'odiata destra per mantenere il governo e a rinunciare al principale strumento di delegittimazione dell'avversario, ossia l'accusa di estremismo.

Tuttavia, il partito di Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti esprime anche una rappresentatività dell'Italia settentrionale che era stata negata dal Conte bis. La Lega, e Draghi lo ha palesemente riconosciuto nella assegnazione dei ministeri, ha il compito di rappresentare le piccole-medie imprese ed il settore del turismo nel governo. Poter provare a difendere concretamente i piccoli produttori e gli esercenti in un momento così difficile non è ruolo di poco conto. La Lega deve avere sostanzialmente tre priorità: ristori adeguati nella quantità e nella qualità; riduzione del carico fiscale sulle imprese, oltre ad evitare che gli imprenditori vengano stritolati nel nome della lotta all'evasione; e progetti infrastrutturali che possano essere sfruttati dai Comuni e dalle Regioni dove governa. Tutto questo si può fare, senza bagni di sangue sul piano del consenso, ma in un orizzonte di tempo limitato. L'inizio del 2022 è quasi certamente il punto dove fermarsi. Anche perché, e qui passiamo alle regolarità, il centrodestra di governo difetta dell'alleanza dei tecnici, strategici per questo governo. Anche quelli scelti da Mario Draghi, molto probabilmente con la compartecipazione del Quirinale, sono tutti riconducibili politicamente alla vecchia maggioranza giallorossa. Non c'è nessun ministro tecnico dall'area di centrodestra. Una debolezza che avvalora ancor di più la tesi che l'esperimento debba essere di scopo e limitato nell'orizzonte temporale. Questo stato di minorità del centrodestra, tuttavia, dipende da due fattori. Da un lato c'è l'egemonia culturale del centrosinistra sui gangli dello Stato, che rallenta la circolazione delle élite, aumenta il conformismo, diminuisce la capacità di adattamento a nuovi scenari e, soprattutto, mina la legittimazione delle istituzioni del governo centrale, spesso percepite dalla maggioranza degli italiani come partigiane ed indegne di un pieno riconoscimento.

Dall'altra c'è l'incapacità del centrodestra di avvicinare quei gruppi sociali (magistrati, funzionari, manager, alti burocrati, diplomatici) per renderli meno avversi alla propria parte e l'ingenuità nel credere che il consenso si traduca automaticamente in governo. Draghi, spinto da Silvio Berlusconi alla Bce, è stato per certi versi l'eccezione che conferma la regola. Ed è infatti l'unico tecnico capace di riunire centrodestra e centrosinistra. In questa ottica, l'elezione al Quirinale tra un anno di questo podestà che ha pacificato trasversalmente la classe politica potrebbe essere la migliore soluzione per il Paese seppure vi è da scommettere che il percorso di successione a Mattarella non sarà così automatico e lineare. Da ultimo, la composizione della maggioranza e dell'esecutivo mostra anche le incrinature del sistema politico italiano. Alcune molto evidenti come il perenne stato di emergenza della politica, l'auto-commissariamento dei partiti, l'ascesa di tecnici per rimpiazzare l'irresponsabilità politica, l'incapacità assoluta di riformare le istituzioni, altri invece che si muovono più in profondità.

Tra questi ultimi c'è lo scarto generazionale del partito trasversale delle istituzioni. Da Giorgetti, Berlusconi e Brunetta, da Franceschini, Gentiloni e Bianchi fino allo stesso Draghi, al suo braccio destro Garofoli e al ministro dell'economia Daniele Franco traspare come l'ossatura della Repubblica poggi ancora su quella classe dirigente formatasi negli anni Novanta. I trenta-quarantenni emergenti allora sono i tessitori dell'accordo di oggi. Ciò nonostante lo straordinario ricambio politico degli ultimi anni, che invece tanti trenta-quarantenni di oggi ha portato al vertice della politica. Questo stato di cose dovrebbe far riflettere sullo scenario desolante che abbiamo di fronte e cioè che la cosiddetta seconda Repubblica ed i suoi strascichi antipolitici sono stati incapaci di formare una classe dirigente variegata e in grado di farsi carico delle sfide del Paese. Sono stati generati nuovi politici mediocri, ma non una nobiltà di governo. È questo un grosso motivo di preoccupazione per il futuro perché chiunque conosca un po' di storia sa quanto conti la continuità nel gestire la Ragion di Stato. Un segno che i filtri funzionali per selezionare la classe dirigente italiana funzionano sempre peggio e che un pezzo consistente dei giovani migliori preferisce altre attività alla politica o addirittura emigrare altrove. Viene da chiedersi cosa succederà, vista la consunzione del sistema politico e la già persistente debolezza dello Stato, tra qualche anno quando la vecchia ossatura andrà fisiologicamente all'esaurimento. O forse sarebbe meglio evitare di farsi certe domande, considerate le avvilenti prospettive di risposta, e sperare che almeno questo ennesimo stato di eccezione possa fornire una proroga per rigenerare la classe dirigente.

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