Il bluff della legge di stabilità

Tre giovinette, Tirsi, Clorinda e Clori, in un giardino bellissimo van raccogliendo fiori: chi sì chi no ne colse. Dunque chi colse i fiori? Tirsi, Clorinda o Clori?

Non sono impazzito, almeno non del tutto. Ma mentre tentavo di raccapezzarmi nella selva oscura delle tasse m’è tornato in mente l’indovinello di cui sopra. E mi interrogavo: pagherò Tari, Tasi o Trise?

Non lo so, ciò che certamente so è che la legge di stabilità ha fallito nell’intento che ne costituiva la premessa nelle promesse di Enrico Letta: «Darà certezze di lungo termine a imprenditori e famiglie». A una prima lettura la legge effettivamente dà varie certezze e soprattutto una: quella del governo di un Paese ancora impaurito, che non ha saputo osare né ha avuto una visione realmente sfidante per agganciare il treno della ripresa. Fantozzianamente parlando, questa legge sarebbe una boiata pazzesca. Perché cambierebbero solo i nomi delle tasse aggiungendone di nuove, perché non ridurrebbe le imposte ma le aumenterebbe, perché non aiuterebbe i più deboli in quanto li punirebbe al netto dei nuovi balzelli, così come punirebbe i cittadini virtuosi che si sono sudati la pensione dopo una vita di lavoro.

E ancora: appare fallimentare il tentativo di dare un simulacro di ripresa attraverso l’intervento sul cuneo fiscale perché, a conti fatti, si rivela assai meno generoso di un’elemosina. In definitiva: non ci sarà la ripresa dei consumi (che senso avrebbe per esempio ritirare il bonus fiscale per l’acquisto dei mobili e per le ristrutturazioni?), ma al contrario una contrazione ulteriore dettata anche da fattori psicologici legati alle prossime e ancora non definite scadenze fiscali. Per questo le tredicesime saranno congelate e i denari non rimessi in circolo: la gente avrà paura di non aver poi risorse sufficienti per far fronte alla gragnuola di balzelli prossimi venturi.

Non ci sono investimenti seri in questa legge di stabilità: si tratta di un bluff, di puro illusionismo. Si straparla di incentivi per le imprese, ma chi potrà assumere se manca o addirittura viene mortificata la domanda di consumi?

E ancora: dove sono i tagli, quelli veri e coraggiosi, alla spesa pubblica che fagocita oltre 800 miliardi di euro ogni anno? Semplicemente non ci sono, in attesa che l’ennesimo commissario si metta al lavoro (e campa cavallo che la spesa cresce). E d’altronde era chiara l’inutilità di attendere persino un battito d’ali dal momento che per far cassa si è discussa perfino l’idiozia di pagare a rate le liquidazioni abbassando il tetto dell’unica soluzione da 90 mila a 50 mila euro.
 Ma vi rendete conto? Uno lavora quarant’anni, si vede cambiare ogni due anni le regole della pensione e quando arriva stremato al traguardo con il suo piano faticosamente costruito sull’unica certezza rimasta, cioè i suoi soldi della liquidazione, lo Stato che bella pensata fa? Gli dà i soldi a rate. Una vergogna. Comincio a convincermi che sia dettata da incapacità. In un recente dibattito in televisione, infatti, il viceministro dell’Economia, Stefano Fassina, mi invitò a prendere il suo posto per fare tagli e interventi che io indicavo e che lui riteneva invece impossibili (ho notato invece con piacere che è stato recepito, ancorché in maniera blanda, quello di vigilare sulla giungla degli affitti della pubblica amministrazione). Io sono rimasto al mio posto e lui al suo e non so se il danno maggiore l’abbia subito il giornalismo o la politica.
 Ora, non tutto è perduto perché c’è il passaggio parlamentare. Per ministri del Pdl autonominati «sentinelle delle tasse» (forse in momentaneo letargo), sedicenti liberali del Pd (al momento non pervenuti) e deputati tutti è arrivato il momento di darsi gentilmente una mossa. Sperando che le toppe non siano peggiori dei buchi.

P.s. La risposta all’indovinello è: raccolse i fiori… chi si chinò. E fermiamoci qui con le metafore.

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