Lanificio Colombo, è la tradizione che crea valore

Comincerò questo appuntamento parlando di cardi. E cosa c’entrano i duri, spinosi, cardi selvatici con l’economia? C’entrano. Perché sono una metafora del fare, della tradizione artigiana che non abdica alla tecnologia. Anzi, ci fa amicizia. I cardi naturali sono “le spazzole” che permettono al cachemire, alla vigogna, ai tessuti pregiati prodotti a Borgosesia dal Lanificio Luigi Colombo di riammorbidirsi dopo la tessitura e il lavaggio.

E allora? Direte voi. “Senza questi cardi la qualità non sarebbe la stessa. Certo, con macchinari e prodotti sintetici risparmieremmo sui costi: ma non saremmo il primo produttore mondiale di tessuti in fibre nobili. Si tratta di scegliere. O il profitto. O il prodotto con il giusto profitto” dice Roberto Colombo, erede del fondatore e amministratore delegato del Lanificio insieme con il fratello Giancarlo.

Tutti comprano a Romagnano: Prada, Chanel, Louis Vuitton, Hermès, Dior e via elencando. E la morale è semplice: tornare alla manifattura, all’economia dei fondamentali. Lavoro, artigianato, tecnologia e se possibile nessun indebitamento. “Credete che se avessimo scelto diversamente i dirigenti di un noto gruppo francese del lusso si sarebbero seduti al nostro tavolo per discutere la vendita dell’azienda?” continua “Non ci interessava, e declinammo l’offerta. Ma i francesi rilanciarono: allora vi apriamo una catena di negozi in Europa. Rispondemmo ancora: non siamo mica matti. Così potreste ricattarci sulle forniture alla fine ci troveremmo obbligati a svendervi il Lanificio”.

Un piccolo episodio. Simbolo però di resistenza. Quanto rumore ha fatto la vendita della Parmalat risanata da Sandro Bondi, della sartoria Brioni, di marchi come Gucci o Bulgari ? O l’acquisto da parte dei russi del brand Gancia? Lanificio Colombo nel suo piccolo ha resistito. Eppure non ha le dimensioni di Ferrero, non può andare in America a comprarsi i Ray-Ban come Luigi del Vecchio con la sua Luxottica né fare shopping all’estero come il colosso Barilla.

Lanificio Colombo cresce piano. Tenendosi stretti gli artigiani più sapienti “quelli che non possono coltivare l’orto perché perderebbero la sensibilità del pollice e dell’indice, addestrati a riconoscere al tatto la morbidezza e lo spessore dei fili di cachemire” ma allo stesso tempo investendo in innovazione e ricerca circa il 5 per cento del fatturato, che nel 2011 ha raggiunto i 70 milioni.

“Non c’è futuro senza tradizione” continua Colombo “E nella tradizione c’è la voglia e la pazienza di cambiare in continuazione i cardi all’interno delle macchine: c’è la qualità e l’etica. Ho visto negli ultimi anni aziende cresciute a dismisura grazie alla finanza e ai private equity, aziende costrette a rendere conto agli azionisti, a dover aumentare fatturato e dividendi. Ho visto i nuovi manager licenziare per onorare il profitto, abdicando così all’etica e alla qualità. Possiamo continuare così?. Lo dico con coscienza: se non avessimo avuto una tradizione più che trentennale, difficilmente avremmo retto alle ondate di crisi nel tessile”. E il 2013 si annuncia più difficile anche del 2008.

Ma Lanificio Colombo viene da un periodo di crescita. I tessuti rappresentano ancora il 75 per cento del business (500 tonnellate di lane extrafini lavorate l’anno di cui 250 soltanto di cachemire), ma da alcuni anni si è affiancato anche la moda. L’obiettivo è di arrivare entro il prossimo lustro al 50 e 50, ma a piccoli passi. Dopo Milano, Porto Cervo, Vienna, Cannes e Saint Tropez e 4 nuovi negozi appena aperti in Corea Lanificio Colombo progetta di avviare altri 10 punti vendita in Cina e di entrare in Svizzera insieme con un partner estero. “Sarà dura, ma senza manifattura non c’è economia”.

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