La verità è che Buzzi & Co. sono veri capitalisti italiani

Il dibattito non è ozioso. Come definire ciò che le inchieste della procura di Roma stanno facendo emergere? La domanda è molto più importante di quello che sembra a prima vista: non si tratta di soddisfare il desiderio pigro di incasellare la realtà dentro a schemi mentali precostituiti, ma di conoscere l’oggetto sul quale, eventualmente, intervenire. Per questo è importante chiedersi se quella scoperchiata dalla procura di Roma sia o no “mafia”.

La maggior parte dei giornali ne è certa (anche perché “Mafia Capitale” è un titolo di sicuro appeal) ma c’è anche chi come Giuliano Ferrara e Claudio Velardi, solo per fare due nomi, sostiene che il procuratore di Roma Pignatone sta indagando, in realtà su dei truffatori, dei ladri, dei corrotti e dei corruttori. Le sua inchieste, cioè, stanno portando alla luce un’organizzazione informale di farabutti, delinquenti comuni che, seppure organizzati molto bene, nulla hanno a che vedere con ciò che comunemente intendiamo per “mafia”. Entrambe le definizioni hanno però un difetto che è uguale e contrario: la prima, “mafia”, appare approssimata per eccesso mentre la seconda, “delinquenti comuni”, lo è per difetto. Allora, di che cosa parliamo quando parliamo delle inchieste romane?

Proviamo ad immaginare che ciò che sta emergendo a Roma sia il più perfetto esempio del capitalismo italiano. In questo caso Buzzi & Co. potrebbero non essere né dei mafiosi né dei delinquenti, ma degli imprenditori che hanno intrapreso l’unica strada possibile per fare impresa in Italia: la corruzione. Certo, si tratta di un capitalismo straccione, ma se pensiamo per un attimo a come il privato si rapporta con il pubblico, e se pensiamo alle migliaia di inchieste che hanno riguardato i rapporti tra il privato e il pubblico, occorre concludere che un imprenditore che deve, per la natura del suo business, avere a che fare con il pubblico ha solo una strada per sopravvivere: corrompere, appunto. In questo senso la “colpa” di Buzzi & Co. sarebbe solo quella di essere più bravi di altri. Cioè: bravi imprenditori italiani.

Il nostro capitalismo ha questo particolare inquietante: un apparato statale pervasivo e corrotto. E, per di più, comprabile a costi molto contenuti (abbiamo scoperto che con 3-5mila euro si compra un politico). Non è esagerato dire che non c’è appalto pubblico, assegnazione, concessione, gara che non fornisca materiale d’inchiesta. E non è esagerato dire che se solo un magistrato volesse, potrebbe trovare prove di malaffare in tutti i punti di contatto tra il mondo pubblico e il mondo privato.

In alcuni settori economici la presenza dello Stato non può che essere pervasiva, ad esempio l’ordine pubblico, l’amministrazione della giustizia e la difesa ma in altri comparti economici potrebbe non esserlo. Essendo, invece, lo Stato presente ovunque, dai servizi pubblici all’istruzione passando per il business fieristico e la cultura, un “normale” imprenditore non ha alternative ad avere con lui un rapporto più intenso rispetto a quelli che sarebbe costretto ad avere in altri Paesi europei con tradizioni liberali più consolidate.

Questo rapporto è, evidentemente, un rapporto di sudditanta, nel senso che dallo Stato si ricevono appalti e autorizzazioni, concessioni e documenti con il risultato che l’unico modo di fare i capitalisti in Italia è essere dipendenti dallo Stato, cioè essere dei capitalismi parastatali.

Se, allora, proviamo ad intendere la vicenda di Buzzi & Co. come espressione del più puro capitalismo italiano per contrastarlo non ci sarebbero che due strade. La prima è il “tutto pubblico” e la seconda è il “tutto privato” (o “più privato”). Nel primo caso lo Stato fa tutto senza bisogno di affidarsi ai privati eliminando così i punti di contatto con chi è disposto a corrompere mentre nel secondo lo Stato si contrae fino a restare un controllore della qualità dei beni e dei servizi resi dal privato.

Se (il “se” è importante) si vuole sradicare il fenomeno dei Buzzi & Co. occorre comprendere che esso è il risultato di un capitalismo bastardo che non ha mai scelto da che parte stare: se dalla parte di un’economia pianificata con lo Stato che non solo programma ma realizza, o dalla parte di un’economia liberale nella quale lo Stato dà obiettivi e controlla i risultati senza intervenire nei processi.

Certamente, e sarebbe ingeneroso non riconoscerlo, esistono milioni di eccellenti imprese private che con lo Stato non hanno nulla a che fare (e che sono eccellenti proprio per questo) ma esiste, e sarebbe sciocco non riconoscerlo, anche milioni di imprese che vivono sulle spalle dello Stato sfruttando la sua pervasiva e sgangherata presenza nell’economia. Uno Stato che vuole fare la raccolta rifiuti ma anche il trasporto pubblico vuole avere il monopolio dell’istruzione ma vuole occuparsi anche dell’attività di collocamento dei disoccupati

Allora, se quello di Buzzi & Co. è un esempio di capitalismo all’italiana, per sradicare il fenomeno occorre cambiare la struttura del capitalismo riducendo lo spazio dello Stato. Un “vaste programme” che Renzi non sembra avere alcuna intenzione di perseguire perché molto (troppo?) impegnativo dato che si tratta di liberalizzare (nella bulimia delcaratoria del premier “liberalizzazioni” è la parola meno usata) e privatizzare. Questo “vaste programme” non viene mai affrontato nel dibattito pubblico ed è per questo che si finisce per discutere se Buzzi & Co. sono mafiosi o semplici delinquenti. E’ più facile, perché in entrambi i casi è un problema della magistratura, non della politica.

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