L’onda anomala di whisky a misura di samurai

Negli Usa sono recentemente finiti sulle pagine di Forbes come "il nuovo grosso affare"; in Francia, nei locali giusti, hanno pareggiato gli scozzesi; in Italia sono sempre più al centro della scena nelle degustazioni per intenditori, come quella appena tenutasi al BarMetrò di Milano. Sono i whisky giapponesi: di antica tradizione, ma recente fama. Eppure, la loro è una bella storia.

"Per anni i giapponesi hanno distillato un ottimo prodotto senza mai sentire il bisogno di esportarlo" ricorda Salvatore Mannino, francese di origini siciliane, brand ambassador della Maison du whisky di Parigi, dove la metà del venduto oggi arriva da Oriente. I confini sono stati varcati solo a partire dal 2001, quando lo Yoichi 10 ha vinto il primo premio del Whisky Magazine. "Oggi" commenta Mannino "la Francia è il primo mercato estero, seguita da Cina e Taiwan, però anche l’Italia sta dimostrando di apprezzarli".

La tradizione nipponica non è molto più recente di quella scozzese: gli Scotch blend risalgono al 1853 e la prima distilleria del Sol Levante è del 1923. «Pioniere fu Masataka Taketsuru, che si trasferì in Scozia alla ricerca della ricetta del perfetto whisky» continua l’esperto. Oggi i processi giapponesi di distillazione seguono le antiche tradizioni scozzesi: alambicchi scaldati su fuoco vivo, alimentati a mano. Le maggiori distillerie si dividono in due gruppi: Nikka (che riunisce Yoichi e Miyagikyo) e Suntory (Yamazaki, Hakushu e Hibiki), cui si aggiunge la minuscola Chichibu. In Italia si trovano già in locali top come il BarMetrò di Giorgio D’Ambrosio a Milano, l’enoteca Alessi a Firenze, Eataly a Roma e Torino, Costantini a Roma, Moscheta a Padova, mentre l’unico importatore ufficiale per l’Italia è Velier (Velier.it).

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