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Ken Loach: "Un altro mondo è possibile"

"Un altro mondo è possibile ma soprattutto è necessario". Parola di Ken Loach, vincitore della Palma d'oro per il film che ha fatto piangere tutti, senza via di scampo, al Festival di Cannes: I, Daniel Blake, firmato dall'80enne regista inglese lontano dal glamour del red carpet ma da sempre vicino alle periferie (Piovono pietre, La parte degli angeli), è la storia di un operaio quasi sessantenne e una madre single disoccupata, nuovi poveri di un'Inghilterra, e un'Europa, che sembra stiano smantellando le tutele e le conquiste civili del dopoguerra.

Il film di Loach ne segue la vita quotidiana: la spesa e le bollette troppo care, i loro momenti insieme, la voglia di raccontarsi e di ridere, ma anche qualcosa che non si vedeva da decenni, la fame. Ed è questo che ha fatto tornare l'80enne regista inglese dietro la macchina da presa, dopo aver annunciato due anni fa, proprio sulla Croisette, il suo ritiro. Premiato dalla giuria presieduta dal regista americano George Miller, Loach ha ringraziato il festival francese perché fa luce sui temi di attualità come quello, fra gli altri, del suo film.

Che cosa le ha fatto cambiare idea tanto da tornare al lavoro dopo aver annunciato il ritiro? 

Uno shock. Sono rimasto allibito ascoltando le storie delle persone che si rivolgono agli uffici del welfare e chiedono assistenza: spesso entrano in un tunnel umiliante, restano schiacciati dalla burocrazia anziché riceverne aiuto. E non parlo di gente che ne ha approfittato, ma di uomini come il protagonista del film, immaginario ma costruito su testimonianze vere: un tipo sveglio e competente, che ha sempre amato il suo mestiere, eppure non riesce a ottenere la pensione di invalidità alla quale, sulla carta, avrebbe tutto il diritto. Viene umiliato e denigrato, oltre che costretto ad attese e pratiche da azzeccagarbugli. Tutto questo è sistematico, e fatto con consapevole crudeltà: è così che molti finiscono per rinunciare o perdere tutto.

Di welfare si muore?

Disoccupazione e suicidi stanno aumentando in modo preoccupante. E che fa lo stato sociale inglese, per dirne una? Organizza corsi sui rischi di suicidio. Intanto chi chiede assistenza viene colpevolizzato, additato come qualcuno che vive sulle spalle altrui perché non si da abbastanza da fare.

Nel 1966 lei aveva messo in scena "Cathy Come Home", una pièce teatrale su disoccupati e homeless: avrebbe mai immaginato di raccontare povertà e fame nell'Europa di 50 anni dopo?

Assolutamente no: è terribile che questo stia succedendo nel cuore dell'Europa.

È impossibile non piangere, vedendo il suo film, eppure I, Daniel Blake è semplice, ha uno stile essenziale.

Già, la storia è così forte che non c'era bisogno d'altro: abbiamo evitato qualsiasi cosa che potesse distrarre lo spettatore dall'essenza e dai personaggi del film. Il ritmo segue la vita di ogni giorno, con le piccole grandi cose che succedono quotidianamente. È proprio l'economia della storia che la rende così potente. Ha un doppio effetto: spezza il cuore e fa arrabbiare.

Come sempre lei e lo sceneggiatore Paul Laverty costruite la storia raccogliendo testimonianze e usando, poi, attori veri e molti non professionisti: una strategia per ottenere un film vicino alla realtà?

Di sicuro la realtà è complessa e le storie non vanno scritte a tavolino: quello che abbiamo sempre fatto è parlare con la gente. Siamo andati spesso al banco alimentare, lì vedi gente alla disperazione. Ci abbiamo anche girato alcune scene, con la gente che ci lavora davvero, persone disponibili, calorose. Ma sarebbe falso un film che racconta solo la sofferenza, perché nella vita non è così: è fatta di risate, liti e le riappacificazioni, chiacchiere, solidarietà.

Come ha trovato i due protagonisti?

Dave Johns fa il comico nei cabaret di Newcastle. Ha l'età giusta e una faccia che fa una grande simpatia, proprio quello che volevamo. Per tradizione, i “comedians" inglesi sono radicati nella working class, fanno ironia e battute sulla durezza della vita. Mentre Hayley Squires, la protagonista femminile, è una giovane attrice disoccupata, bravissima, cresciuta in un ambiente operaio, cosa che non nasconde.

A giugno gli inglesi voteranno pro o contro l'uscita dall'Unione Europea: pensa che questi problemi, per la società inglese, si possano risolvere più facilmente stando dentro o fuori dall'Europa?

È davvero difficile capirlo. Da un lato è proprio l'Europa a spingere l'acceleratore verso un'economia liberista, le privatizzazioni, la riduzione delle tutele sul lavoro, ma sono convinto che se la Gran Bretagna si sganciasse per noi sarebbe ancora peggio, perché una destra ancora più aggressiva avrebbe più spazio. Vedo la forza con cui cercano di spingere fuori dal sistema il nuovo leader del Labour, Jeremy Corbyn, che pensa finalmente ai bisogni della gente comune mentre Tony Blair e Gordon Brown hanno protetto il mondo del business. Manca anche una vera sinistra europea, mi auguro che nascano alleanze per costruirla.

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