James Joyce, Ulisse tradotto da Gianni Celati per Einaudi

Confesso che prendendo tra le mani Ulisse di James Joyce nella nuova traduzione di Gianni Celati , pubblicata poche settimane fa da Einaudi, la prima cosa che mi ha colpito è stata l'assenza di note nel testo; e di tutto l'apparato critico e di "aiuto alla lettura" solitamente presente nelle edizioni del gran libro.

Ovviamente non è questa assenza il fatto più rilevante dell'edizione Einaudi, ma è decisamente in linea con l'impresa di Celati (sette anni di lavoro): nella traduzione del romanzo punta infatti tutto sulla partecipazione e concentrazione del lettore sul testo, senza elementi esterni, per esaltare soprattutto la "musicalità" e il "disordine delle parole". In questo senso, forse, estendendo l'idea "programmatica" condensata da Joyce nell'episodio 11 (Le Sirene).

Letture liberata

Celati ha scelto di offrire al lettore una lettura il più possibile "liberata"  (e musicale) dell'Ulisse. Liberata per esempio dall'obbligo di "capire tutto": il che è, tra l'altro, un obbligo decisamente difficile da assolvere, almeno nella nostra prospettiva di "lettori comuni", alle prese con la difficoltà della lettura. Lettore comune che è notoriamente il lettore che aveva in mente Joyce, che certo non scrisse pensando che il lettore del suo Ulisse dovesse essere qualcuno che stava dentro i dipartimenti universitari e che leggesse sezionando riga per riga il romanzo.
Scrive Celati nella sua prefazione (in parte già pubblicata la scorsa estate dal domenicale del Sole 24 Ore):

«Difficili capitoli, sempre più stravolti. Ma credo che tutte le difficoltà si superino, a patto di non avere fretta e di accogliere con simpatia il disordine delle parole. Per questo non è importante capire tutto: è più importante sentire una tonalità musicale o canterina, che diventa più riconoscibile quando sembra di piombare in un flusso disordinato di parole. L'Ulisse è un libro in cui la musicalità è l'aspetto decisivo per tutti i rilanci, deviazioni, sorprese, iterazioni, monologhi.»

In queste parole si rileva dunque il senso di tutta l'operazione Celati-Einaudi davanti all'Ulisse:

«[…] Ho capito che dovevo coinvolgermi in simili azzardi e accettare il disordine delle parole, come le mescolanze e variabilità delle fantasie. […] è importante sentire una sonorità che diventa più riconoscibile proprio quando ci sembra di piombare fra termini ignoti - gerghi fossilizzati, chiacchiere da pub, stele di varie epoche.
[…]
«È un libro sentito e sostenuto da quella speciale percezione che è la musica, al di là del senso oggettivo delle cose o assertivo delle parole, ma che fa parte di qualsiasi sonorità che si diffonde in qualunque direzione.»

E se si accetta questo modo di leggere, la coraggiosa assenza di note aiuta davvero in questa prova di lettura liberata. Lo dico da lettore che da più di un anno è alle prese con Ulisse e che avanza lentamente, molto lentamente, sia per l'oggettiva difficoltà del testo, sia per la "tentazione" di farsi trascinare "fuori": da annotazioni, dalla ricognizione di tutti i riferimenti inseriti da Joyce, a volte anche dai paralleli con l'Odissea, che i critici, i lettori di professione, penso in particolare all'edizione del Meridiano Mondadori, ci hanno meritoriamente offerto.

Eroe minore

Ecco, a patto di avere a portata di mano una guida da consultare ogni tanto - quando non ci si raccapezza, o quando proprio non si resiste alla tentazione di provare a capire tutto (desiderio frustrato comunque dalla complessità del testo) - le pagine di questa edizione Einaudi sono un ottimo modo per affrontare Joyce, ricavandone la bella sensazione di coraggioso corpo a corpo con il testo, senza intermediari lì accanto; intermediari che anche edizioni come quella recentissima di Newton Compton , se pure assai alleggerita di apparato rispetto alla tradizione, comunque offrono.

Tanto più che non avere sempre accanto gli intermediari mi pare anche un modo per onorare l'idea di Joyce di mettere al centro del suo libro un eroe minore, "l'individuo comune" con la sua vita quotidiana piena di meraviglie. Quindi lettore comune + individuo comune: come ci ha ricordato molto bene Declan Kiberd nel suo Ulysses and Us. The Art of everyday living .
Scrive ancora Celati nella prefazione:

«Il punto focale della peregrinazione di Mr Bloom è la vita qualsiasi, la vita senza niente di speciale, la vita come un sogno o un lungo chiacchierare con se stessi».

Movimento discontinuo

Chiudo con altre due citazioni. La prima è addirittura un film, L'uomo con la macchina da presa, 1929. di Dziga Vertov. Secondo Celati,

«in quegli anni c'è solo un autore che percepisce come Joyce un senso generale del movimento discontinuo, ma collettivo in ogni angolo, in ogni transito in una carraia, in ogni luogo di negozi o di fabbriche: sarà il grande cineasta russo Dziga Vertov, che nel suo straordinario film del 1929 [...] sembra aver appreso certi aspetti delle tendenze di Joyce, per farne un flusso di vite».

La seconda è un brevissimo assaggio della traduzione di Celati, dal quarto episodio dell'Ulisse, quello della Colazione, quello nel quale conosciamo Bloom:

«Un rognone trasudava gocce di sangue sul piatto con disegno cinese biancoblu: l'ultimo pezzo. Si fermò al bancone accanto alla servetta dei suoi vicini. Che me lo soffi lei, leggendo la lista delle cose che ha in mano? Mano screpolate, soda del bucato. E una libbra e mezza di salsicce di Denny. Posò gli occhi sulle anche vigorose della servetta. Lui si chiama Woods. Non so cosa faccia. Moglie avanti con gli anni. Sangue nuovo. Vietati i filarini. UN paio di braccia forti. Quando batte il tappeto sulla corda del bucato. Come sbatte, accipicchia! E la gonnella intorcigliata come le va di qua e di là a ogni colpo!»

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