Imprenditori, se non è anche umano che capitale è?

Come ripensare la crescita? Come immaginare un futuro dopo la fine del mondo del consumo dei beni prodotti e moltiplicati da una finanza che ha distrutto stati e persone? "Prima di tutto con un nuovo atto d’intelligenza" scrive il sociologo Mauro Magatti ne La grande contrazione (Feltrinelli, 352 pagine, 25 euro), fra i più lucidi studi assieme a quelli di Yochai Benkler e Richard Sennett, dell’attuale condizione umana. Attraverso cioè una ridefinizione dell’idea di sviluppo capace di soddisfare i bisogni e i valori perduti dall’Occidente: l’ambiente, le relazioni umane, la cultura. In sintesi, il senso della vita e del lavoro quotidiano.

Brunello Cucinelli, re del cashmere e seguace di san Benedetto, ci ha provato. Mettendo 6 mila euro sotto l’albero di Natale di ciascuno dei suoi 783 artigiani ma soprattutto creando una stagione teatrale, un centro sportivo, un orario flessibile e un ambiente di lavoro più consoni alla dimensione spirituale e comunitaria che all’efficienza produttiva. A Solomeo, il borgo medioevale che Cucinelli ha ristrutturato per evitare il calcestruzzo e l’alluminio degli orridi prefabbricati di periferia, lavorano persone prima che operai e dirigenti, gente che ha un nome e un cognome prima che una qualifica, una famiglia e delle passioni più che una specializzazione. Gente che vivendo meglio lavora meglio: proprio come lui, Brunello, che da un’infanzia povera ma libera e felice rifiuta l’idea di fabbrica che ha tolto il sorriso al padre per la sua idea di rivoluzione. Il lusso e il rigore, il bene e l’essere. Tutto secondo la tradizione più autentica del life style e del capitalismo globali, quella regola di san Benedetto dove a ognuno è dato secondo il proprio bisogno e natura. E dove tutti, in proporzione, partecipano al destino collettivo.

Non è il solo, Cucinelli. Col temperamento variegato e lo stile eccentrico che fa dell’Italia un paese unico al mondo, l’hanno fatto Diego Della Valle della Tod’s e Francesco Casoli dell’Elica, Paolo Bertoluzzo della Vodafone e Renzo Rosso della Diesel. Soluzioni diverse per lo stesso problema: "La grande narrazione del capitalismo tecno-nichilista è finita" dice Magatti "perché l’arsenale tecnologico e organizzativo basato sull’aspirazione a un’idea astratta di libertà" ha realizzato la "vivisezione culturale delle persone, trasformate nelle loro funzioni di consumatori attraverso uno straordinario concentrato d’ideologie iperliberiste, media ipercommerciali e deregolamentazioni iperfinanziarie". Metamorfosi divenuta fatale al tramonto del welfare state concepito nel XX secolo.

È il ritorno al passato, a quelle signorie dove il mecenatismo faceva rima con paternalismo? Piuttosto, è la rivincita, almeno sulla carta, di uno strano padrone del Novecento italiano, per cui il primo profitto era il benessere degli operai, che faceva vivere in case con garage, orto e spiazzo per fare giocare i bambini. Uno strano imprenditore che per le assunzioni di operai ascoltava le raccomandazioni di Eugenio Montale e Giuseppe Ungaretti e affidava le fabbriche ad architetti come Luigi Fighini, Gino Pollini e Ignazio Gardella. Un editore sui generis, infine, ostinato a fare conoscere all’Italia degli anni Cinquanta autori come Fromm, Galbraith, Weil, Adorno. Uno strano capitalista, insomma, che al funerale fu salutato da 40 mila persone, comunisti in lacrime e fascia nera in prima fila.

Quello strano padrone si chiamava Adriano Olivetti e alla fine degli anni Quaranta aveva già intuito l’analisi di Magatti: "L’astuzia del capitalismo tecno-nichilista non educa l’uomo a obbedire a norme morali e a esercitare la propria responsabilità, ma è sollecitato a liberarsi e a esprimere se stesso e la propria autenticità". Il risultato è una società divisa, impaurita, indebitata, disorientata.

Cultore di Rudolph Steiner e Omero, Olivetti credeva invece all’armonia come forma suprema di bene. Per questo ideò un mondo lontano dalle cupe visioni dei marxisti, dove le macchine non brutalizzano gli operai ma assicurano loro un’esistenza più degna con la bellezza e lo stile prima che con l’efficienza.

La mistica di Olivetti smentì per sempre la gretta ideologia industriale classica: la vita di fabbrica diventava più bella se gli ingegneri facevano coincidere la funzionalità delle macchine con l’estetica; se gli architetti consideravano la socialità e la luce nella destinazione degli edifici; se gli operai avevano tempo per leggere il giornale in fabbrica e fuori asili, biblioteche, ambulatori. Se fosse stato così, allora oggetti straordinari avrebbero rivoluzionato il mercato, dalla Lexicon 80 alla Lettera 22, alla Divisumma.

Il primo consiglio di gestione italiano, le pionieristiche riduzioni d’orario allo stesso salario, la fabbrica come Philadelphia, comunità di eletti nell’armonia e nel rigore di un concetto teologico dell’esistenza che si faceva pragmatica quotidiana, cifra concreta di coesione sociale e valore produttivo, oltre che culturale. Concetti che non potevano nascere da una visione politica della vita (a cui qualcuno volle scioccamente ridurre Olivetti) bensì estetica, dalla convinzione, più plotiniana che aristotelica, che la forma migliore si fa sostanza migliore. Perché, diceva il laico Olivetti, solo salvando le anime si può sperare di salvare i bilanci.

Un’idea su cui riflettere di questi tempi.

Leggi Panorama on line

YOU MAY ALSO LIKE