Il lamento dell’Ingegnere e le consanguineità elettive: quando Gadda irruppe in casa di Manganelli

«Stavamo andando in Sicilia, mia madre ed io. Il treno si ferma a Roma, ore 5,30 del mattino. Mia madre dice: “Scendi”. Prendiamo un taxi. Arriviamo in una strada per me sconosciuta… Salgo. Suono. Apre lui la porta. Dico: “Lei è il professor Giorgio Manganelli?” Dice: “Si’ “. Io: “Ciao, papà, sono tua figlia”».

Così Lietta Amalia, all’epoca 17enne, ricorda quel giorno dell’agosto del 1964. Non bastasse il peso epocale dell’evento, quel giorno, incastrato come un gioiello nella forma di ingegnosa circostanza casuale, sta per succedere qualcosa di ancora più incredibile: Manganelli sta aspettando Carlo Emilio Gadda, che ha chiesto di essere ricevuto. L’incontro non è proprio dei più cortesi: Gadda sventola una querela e sembra furioso. L’appartamento di via delle Coppelle è piccolissimo – e dovette restringersi ancora al cospetto delle due stazze che stavano per fronteggiarsi – perciò, come fosse la cosa più naturale del mondo, Manganelli decide di chiudere la figlia sul balcone e di abbassare le tapparelle, fino a che Gadda non se ne sia andato.

Lietta riesce a sentire le urla di Gadda, e poi le sue parole meste: «Professore, non mi rovini, la prego, non mi rovini». Passa un’ora, dopo la quale il padre va a recuperarla, rifiutandosi di commentare l’accaduto.

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