I «privilegi» di un egotico: i superpoteri di Stendhal

Chissà se quello che segue ha un qualche legame logico o metalogico col fatto che il 23 marzo del 1842 Henri Beyle, al secolo Stendhal, è morto a Parigi in seguito a un colpo apoplettico.

Il 10 aprile di due anni prima Beyle è solo a Roma e in preda a «forti emicranie» come molti suoi «colleghi di burocrazia napoleonica» o Grand Tour (Goethe tra i predecessori, Nietzsche tra i successori e ammiratori); è passato un anno da La certosa di Parma, che non è stata accolta bene, e otto da queiRicordi di egotismo che lui stesso definì “opera singolarissima”. Di getto, scrive il suo scritto forse più misterioso, che inizia con questa frase:

«Mai un dolore serio, fino a vecchiaia molto avanzata: e anche allora nessun dolore, ma una morte per colpo apoplettico nel proprio letto, durante il sonno, senza alcuna sofferenza fisica né morale».

Si tratta del primo di 23 precetti-desideri stesi con indole notarile dal «milanese» – come volle fosse scritto sulla sua tomba – console di Civitavecchia (il governo austriaco gli aveva negato la più gloriosa Trieste). La mania pseudonimica (tra Stendhal, Bombet, Mocenigo, Brulard, Salviati, furono circa cento i suoi eteronimi) che rende impossibile limitare gli scritti narrati in prima persona all’autobiografia, e quella per il linguaggio scientifico che sfocia quasi nell’esoterismo tecnico, danno luogo a questa infilata di articoli di quello che sembra un codice di conferimento e regolamentazione di “superpoteri”.

Se infatti il prosieguo del primo Articolo è un pulito e positivista «Mai più di tre giorni di indisposizione in un anno. Il corpus  e le sue secrezioni, sempre inodori», al terzo si legge: «Il privilegiato, venti volte l’anno, potrà trasformarsi nell’essere che più gli piacerà, purché tale essere sia esistente», e al quarto: «Stringendo l’anello che terrà al dito, guardando una certa donna, il privilegiato la farà innamorare di sé appassionatamente come si pensa che Eloisa sia stata di Abelardo».


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