La penetrazione di Pechino nella politica italiana credo meriti un approfondimento da parte del Copasir, ovvero l’organismo politico che vigila sugli interessi nazionali.
All’incirca un anno fa dedicammo una copertina di Panorama a Beppe Grillo. Il fondatore dei 5 Stelle era ritratto con una massa di capelli scompigliati, ma le ciocche ribelli erano rappresentate da una serie di dragoni. Il fondo della pagina era di colore rosso, ma il titolo era giallo: «Te la do io la Cina». L’inchiesta prendeva spunto dall’ennesimo incontro tra il comico e l’ambasciatore cinese. Chiedendosi: perché un uomo di spettacolo trasformatosi, sebbene senza incarichi ufficiali, in leader del più importante movimento presente in Parlamento sente il bisogno di incontrare a più riprese il rappresentante di un Paese straniero? Nel servizio si spiegava la curiosa relazione che lega il garante pentastellato al Dragone e come Grillo, di fatto, fosse diventato il principale sponsor italiano della superpotenza asiatica. Dall’appoggio agli investimenti tecnologici cinesi, in particolare nel settore delle telecomunicazioni (dal 5G ai sistemi di videosorveglianza), all’adesione alla cosiddetta «Via della Seta», il piano per consolidare i rapporti commerciali con l’Europa. Ma nell’articolo si parlava anche dei silenzi di Grillo a proposito delle responsabilità del Paese asiatico nella diffusione del coronavirus. Anzi, degli elogi in cui si profondeva il sito del leader pentastellato per il «grande impegno» contro il Covid. Infatti, il blog beppegrillo.it già all’epoca appariva come uno strumento di propaganda filocinese, a favore di colossi del Dragone come Huawei, Zte e altri gruppi para-statali di Pechino.
L’argomento che anticipammo un anno fa, con servizi sulla nuova «Guerra fredda» in corso tra Cina e Stati Uniti, sia sul fronte della tecnologia che su quello delle armi, ma anche su quello delle materie prime, nelle scorse settimane è tornato di stringente attualità. Perché, mentre in Cornovaglia Joe Biden cercava l’appoggio europeo per arginare le mire espansionistiche di Xi Jinping, Grillo e Giuseppe Conte si preparavano a un nuovo incontro con l’ambasciatore di Pechino in Italia. Un appuntamento che sembrava quasi voler controbilanciare la linea filo-atlantica manifestata da Mario Draghi. Già con il suo discorso in Parlamento, nel giorno della fiducia al governo, il presidente del Consiglio aveva chiarito da che parte stare, ma in Gran Bretagna, a proposito della «Via della Seta», è stato ancor più netto, dicendo che il memorandum siglato fra Italia e Cina dal passato governo sarà esaminato con grande cura e aggiungendo che «Pechino è un’autocrazia che non aderisce alle regole multilaterali». Per il premier, in discussione ci sono «i modi che utilizza, anche con detenzioni coercitive, non condivise dal mondo delle democrazie». Insomma, Draghi ha usato la mano pesante, spendendo parole più dure di quelle riservate a Recep Tayyip Erdogan. Parole precedute dall’uso del «golden power», cioè del veto di governo che tutela la disciplina degli interessi nazionali, con cui è stata impedita la vendita ai cinesi di un’azienda italiana nel settore dei semiconduttori, mossa anticipata da prescrizioni sui contratti di fornitura di tecnologia 5G a imprese nostrane come Linkem e Fastweb.
Dunque, forse era necessario controbilanciare, far capire agli «amici» cinesi che il vento non era cambiato, che la «Via della Seta» non rischiava di essere interrotta e che l’Italia avrebbe continuato a strizzare l’occhio più a Pechino che a Washington. E dunque ecco la missione «diplomatica» di Grillo & Conte, il padre dei 5 Stelle e il leader in pectore del Movimento. Poi qualcuno si dev’essere ricordato che, da ex premier, l’avvocato del popolo divenuto avvocato di sé stesso avrebbe fatto meglio a evitare la foto d’ordinanza con l’ambasciatore cinese e alla fine, all’incontro con l’uomo di Xi Jinping, si è presentato solo il comico, il quale poi ha postato sul suo sito un intervento in totale contrasto con le dichiarazioni di Draghi.
A questo punto urge fare chiarezza, perché l’Elevato, per quanto spesso faccia finta di giocare, non dice mai cose a vanvera, ma, come si è visto a proposito del processo che riguarda il figlio, difende con forza i propri interessi. Qual è il filo rosso che collega Grillo alla Cina? Quali sono i rapporti che lo spingono a incontrare con una certa frequenza i rappresentanti di un Paese con cui abbiamo scambi commerciali, ma che certo non si può definire amico? I grillini hanno spesso sollecitato leggi per regolare il conflitto di interessi, denunciando le relazioni pericolose tra politica e affari. E però, curiosamente, non sentono il bisogno di chiarire i motivi per cui il loro garante sia così attento a coltivare il dialogo con la Cina. Forse sarebbe ora che qualcuno lo facesse per loro. Non voglio sollecitare indagini giudiziarie (anche perché quelle si avviano se si riscontrano reati) o commissioni d’inchiesta, né rompere il clima di armonia che sembra regnare fra le forze che sostengono il governo. Tuttavia, la penetrazione di Pechino nella politica italiana credo meriti un approfondimento da parte del Copasir, ovvero l’organismo politico che vigila sugli interessi nazionali. Non so quanto abbia voglia di inaugurare con questo argomento il proprio mandato il neopresidente Adolfo Urso, ma forse ne varrebbe la pena. Intendiamoci: nei suoi panni non ci limiteremmo ad ascoltare le sole ragioni di Beppe Grillo, ma anche quelle di altri esponenti di partito. Magari convocando Massimo D’Alema e Romano Prodi, politici per i quali, da anni, la Cina è molto vicina. Forse più dell’America.