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Il Conte decaduto

Per un cavillo legale – e nel suo caso non si tratta di una novità – è già deragliata la macchina dei Cinque stelle, che stava guidando da appena sei mesi. Ma l’ex «avvocato del popolo» non si dà per vinto: «La mia leadership non si discute!». Così tra litigi, ricorsi in tribunale, manovre di Beppe Grillo e ambizioni da capo di Luigi Di Maio, il Movimento è allo sbando. Le Amministrativedi primavera saranno il giudizio finale.


l mio regno per un cavallo!» urlava angosciato il Riccardo III scespiriano, sperando di barattare la corona con un destriero che lo portasse lontano dalla ferale battaglia. «Il mio regno per un cavillo!» si lagna invece il Giuseppe Conte manzoniano, disarcionato dalla guida dei Cinque stelle dal tribunale di Napoli. È l’azzeccagarbugli del promesso sposo Renzo: «All’avvocato bisogna contare le cose chiare. A lui poi tocca di imbrogliarle». Solo che l’ex premier è rimasto vittima del suo ultimo groviglio civilistico: il nuovo statuto del Movimento, da lui redatto nell’agosto 2021. Con Beppe Grillo, il fondatore, relegato al ruolo di garante. E tutti i poteri in mano al professor Conte medesimo: ordinario, di Diritto civile persino, all’università di Firenze. l mio regno per un cavallo!» urlava angosciato il Riccardo III scespiriano, sperando di barattare la corona con un destriero che lo portasse lontano dalla ferale battaglia. «Il mio regno per un cavillo!» si lagna invece il Giuseppe Conte manzoniano, disarcionato dalla guida dei Cinque stelle dal tribunale di Napoli. È l’azzeccagarbugli del promesso sposo Renzo: «All’avvocato bisogna contare le cose chiare. A lui poi tocca di imbrogliarle». Solo che l’ex premier è rimasto vittima del suo ultimo groviglio civilistico: il nuovo statuto del Movimento, da lui redatto nell’agosto 2021. Con Beppe Grillo, il fondatore, relegato al ruolo di garante. E tutti i poteri in mano al professor Conte medesimo: ordinario, di Diritto civile persino, all’università di Firenze.

Per seppellire l’opaco passato e principiare il radioso futuro, bastano due delibere. L’estate scorsa permettono di incoronare il nuovo re, grazie al voto online degli iscritti. Adesso vengono sospese dai magistrati, per la violazione di una norma da riunione di condominio: accertare la metà dei presenti. Invece, sono stati esclusi «indebitamente» quasi 80 mila attivisti, iscritti da meno di sei mesi, su un totale di 195 mila associati: oltre il 40 per cento. La modifica al regolamento, scrivono i giudici napoletani, «risulta adottata sulla base di un’assemblea formata da soli 113.894 iscritti». Quindi, sarebbe illegittima: «Ha determinato l’alterazione del quorum assembleare».

Astuzia leguleia o sbalorditiva dabbenaggine? Comunque sia, è la resa del Conte. Lui tenta di svicolare: «La mia leadership non dipende dalle carte bollate». Intanto, è decaduto. Non può essere più il leader. Per lo meno, fino alla prossima udienza: il 1° marzo 2022. Il suo avvocato, Francesco Astone, derubrica: «L’ordinanza del Tribunale di Napoli è una mera sospensione. Il Movimento non è stato decapitato, come qualcuno vuole raccontare». Lorenzo Borrè, autore del ricorso, assicura: «Il 1° marzo la causa non sarà discussa nel merito. I giudici si pronunceranno solo sull’eccezione di incompetenza territoriale, che prevede ulteriori 80 giorni per depositare conclusioni e repliche». Insomma, altri tre mesi di bagnomaria.

Borrè è lo storico difensore dei dissidenti pentastellati. Il legale che, negli anni, ha avviato le inesauribili cause degli ortodossi: pronti a denunciare la deriva, sempre aggrappandosi alle imposizioni proliferate nel tempo. Chi di garbuglio colpisce, di garbuglio perisce. Stavolta, i suoi assistiti sono tre sconosciuti attivisti esclusi dal voto: Steven Hutchinson, Renato Delle Donne e Liliana Coppola. Respinto in prima istanza, il reclamo viene adesso accolto. Con tutte le catastrofiche conseguenze del caso. Oltre a Conte, sono azzerate anche le cariche dei suoi, fidatissimi, cinque vice. Tabula rasa, dunque.

Si potrà eccepire: è giusto che i leader siano scelti dai magistrati? È la prima volta che un partito viene annichilito da una disputa legale piuttosto che da una battaglia politica. Eppure, più che dell’attivismo dei togati, i Cinque stelle sembrano vittima di se stessi. Beppe Grillo, fin dall’inizio, ha imbrigliato i suoi improbabili eletti: statuti, codici, commissioni, reggenti. Uno vale uno. Ogni decisione passa dal responso telematico: dalla scelta dei candidati alle strategie. Il Movimento dev’essere la culla della nascente democrazia diretta.

La base però ha sempre finito per ratificare desideri e ubbie del marchese del Grillo. Per esempio, nel 2017, Marika Cassimatis viene indicata candidato sindaco nella Genova di Beppe. La prescelta, ahilei, non è abbastanza allineata. Votazioni annullate, dunque. A dispetto di ogni regola. Del resto, l’atto costitutivo era stato vergato dall’avvocato Enrico Grillo: nipote del fondatore, nominato d’impero «custode dell’azione politica». Che difatti, anni dopo, si autoproclamerà l’«Elevato». Colui da cui tutto discende. Domineddio, o poco meno.

Poi, un anno fa, arriva l’azzeccagarbugli di Volturara Appula. Il tartufesco Movimento è già in frantumi, emblema di incoerenza e opportunismo. I sondaggi, rispetto alle ultime plebiscitarie politiche, dimezzano i consensi. I parlamentari fuoriusciti sono, già all’epoca, più di un centinaio. L’ex ribaldo leader, Luigi Di Maio, è ministro degli Esteri. Come biasimarlo: vuoi mettere il potere vero con i patemi di un partito farlocco? Ed ecco giungere allora il Messia, appena sostituito da Mario Draghi a Palazzo Chigi. Un principe del foro. Esperto di cause civili, per di più. «Ho la capacità d’inquadrare i rischi delle cose. Io sono terribile come avvocato! I miei collaboratori avevano calcolato il 90 per cento di vittorie» racconta a Maurizio Belpietro nel libro Il trasformista, dedicato alla sbalorditiva ascesa del Signor Nessuno. Chi meglio di lui, quindi, per riedificare la struttura giuridica del Movimento?

Conte, aspirante leader, si mette in testa di battere Grillo con le sue stesse armi: articoli e sottocommi. Ritiene che uno statista del suo calibro, davanti a cui Donald Trump e Angela Merkel si scappellavano, dev’essere incoronato monarca assoluto. Nello statuto giuseppino, il comico che l’aveva issato per due volte a Palazzo Chigi viene demansionato: sarà solo garante dei «valori dell’associazione M5s». Beppe reagisce: «Non può risolvere i problemi del Movimento, non ha la visione politica». Giuseppi replica: «È un padre padrone». Uno dileggia: «Seicentesco». L’altro rintuzza: «La sua proposta è medievale».

Insomma: lo scorso giugno, alla vigilia della tormentata nomina, il fondatore seppellisce pubblicamente l’usurpatore. Certo, poi bisogna fare di necessità virtù. E i due incrociano infine le forchette per siglare il patto della spigola a Marina di Bibbona, feudo del marchese del Grillo. Già allora, il Movimento è in balia della giustizia amministrativa. Il Tribunale di Cagliari rimuove l’eterno reggente, Vito Crimi. Viene nominato curatore speciale l’autore del ricorso: Silvio Demurtas, avvocato-pastore con 30 pecore e qualche maiale. «In caso di consultazioni, salirei io al Colle» informa. Nel mentre, infuria la battaglia con l’associazione Rousseau, che gestisce la piattaforma per il voto. Davide Casaleggio, figlio dell’altro fondatore Gianroberto, si rifiuta di consegnare la lista degli iscritti. Anche questa contesa approda in tribunale. Ricorsi e controricorsi, appunto.

Così solo lo scorso agosto, dopo estenuante attesa, Conte viene nominato presidente, sulla base del suo statuto. E ora, trascorsi appena sei mesi, l’avvocato si ritrova senza scettro. Lui rivendica la sua leadership, certo. «Non dipende dalle carte bollate», ovvio. Va distinto il «piano politico-sostanziale» da quello «giuridico formale», per carità. Bizantinismi a parte, non ha più alcun potere. Vorrebbe riprendersi il trono «con un bagno di democrazia». Auspica nuova votazione, «senza aspettare i tempi di un giudizio processuale».

Solo che Beppe, forse memore dei recenti dissidi, prende tempo. Il momento, per lui, era già tribolato: al processo del figlio Ciro, accusato di violenza sessuale, s’è aggiunta l’inchiesta sulla compagnia di navigazione Moby, dove è indagato per traffico di influenze illecite. Ora anche il futuro della sua ansimante creatura è tribolato. «La situazione, non possiamo negarlo, è molto complicata» ammette eufemistico. «In questo momento, non si possono prendere decisioni avventate».

Il capo, di nuovo, è lui. Dovrà rispondere, tra l’altro, di eventuali spese in sospeso: richieste di risarcimento, l’affitto della sede o l’uso di Skyvote, che ha sostituito Rousseau. Ma che si fa, adesso? Bisognerebbe votare un nuovo comitato di garanzia: quello da cui s’è già dimesso Di Maio, dopo le accuse a Conte sulla maldestra trattativa per il Quirinale. I tre nominati dovrebbero poi stabilire i criteri per scegliere il comitato direttivo. Oppure, per far rivotare il nuovo regolamento. L’ex premier ci spera. Mentre i suoi vagheggiano la solita ritorsione: la nascita del partitino personale.

Solo che il vecchio statuto, tornato in vigore, è stentoreo: l’unico strumento per le consultazioni è la piattaforma di Casaleggio junior. Diventato però, nel frattempo, fiero oppositore di Giuseppi. Tanto da pianificare, assieme al barricadero Alessandro Di Battista, la nascita di un partito antagonista: per recuperare elettori ed eletti delusi. A meno che, a contendere la guida dei pentastellati, non arrivi Virginia Raggi. Sarebbe la spallata finale. L’ex sindaca di Roma è la beniamina dei militanti: pochi mesi fa è stata di gran lunga la più votata nel comitato di garanzia. Beppe l’adora. Dibba la spalleggia. Giggino briga per rimetterla in pista. E anche lei scalpita, vista l’avversione verso Giuseppi, reo di un timidissimo appoggio alle ultime comunali capitoline.

Intanto, incombono altre amministrative: in primavera. La decisione del Tribunale di Napoli dà il colpo di grazia alla traballante alleanza con il Pd: quel «campo largo» voluto dal segretario dem, Enrico Letta. Perfino Goffredo Bettini, primo teorico dei giallorossi, propone di aggiungere una stampella centrista al claudicante Conte, già «punto di riferimento fortissimo dei progressisti». E Dario Franceschini, lungimirante ministro della Cultura, propone alla Lega la riforma elettorale. Urge, visto lo scorno grillino, un bel proporzionale. Sfida senza quartiere nelle urne, seguita da possibili larghe intese al governo. Magari, sempre nel nome di Draghi. Anche perché, il voto per il Colle ha già evidenziato le insuperabili mancanze del deposto.

L’unico interlocutore nel Movimento resta Di Maio. Il ministro degli Esteri, con tempismo eccezionale, s’è appunto sfilato dal comitato di garanzia. E adesso, dalla Farnesina, attende che gli eventi travolgano lo sgradito giurista. Dalle piazze ritmanti «vaffanculo» al tatticismo doroteo, Giggino aspetta e spera. Nel cupio dissolvi, rimane il lumicino. Il vuoto grillino l’ha trasformato in venerato statista. Mangia la pizza con Giancarlo Giorgetti, eminenza leghista e ministro ultradraghiano. E raccoglie il pubblico plauso di Giovanni Toti, alfiere centrista: «Nella nostra federazione c’è spazio per lui».

Giuseppi sembra già un vecchio arnese. Fuori da Palazzo Chigi, sobillato dal fido Rocco Casalino, voleva farsi il partitino personale. Ma poi, l’azzeccagarbugli s’è rivelato un pavido Don Abbondio. Così, ha ripiegato: meglio rianimare i morenti grillini. Per un ex premier, abituato a infinocchiare i grandi del mondo, sarebbe stata una bazzecola. Sei mesi più tardi, si resta nel solco manzoniano: Ei fu. Il suo regno, appena iniziato, è finito. Con disonore, pure. Proprio lui, sovrano incontrastato degli intrichi civilistici, sconfitto da un insulso cavillo.

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