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Giappone e la fabbrica dei migranti

Il Giappone ha disperatamente bisogno di immigrati: almeno 345 mila persone in cinque anni per rilanciare l'economia nazionale, coprire le posizioni più umili che ai cittadini non interessano più, e salvare lo Stato dal debito mostruoso che sta già accumulando per finanziare gli oneri sociali di un invecchiamento che procede a ritmi inesorabili.

Se oggi il Paese conta 126,5 milioni di abitanti (nel 2010 erano 128), le stime catastrofiche diffuse dal ministero degli Affari interni e della Comunicazione prevedono una contrazione della popolazione di 30 milioni di unità in appena 50 anni: 122,7 milioni di abitanti nel 2020, 115,2 nel 2030, 105,6 nel 2040 e addirittura 95 nel 2050. Le stime sull'andamento della popolazione attiva rendono il quadro ancora più nero: 67 per cento nel 2000, circa 65 oggi, meno del 45 per cento nel 2050.

Eppure, per i giapponesi, la possibilità di spalancare le frontiere all'immigrazione è sempre stata e continua a essere inaccettabile. «Il Giappone manca di umanità» era solita ripetere Sadako Ogata, docente e diplomatica giapponese che dal 1991 al 2001 ha ricoperto la carica di Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati. In realtà, le fa eco Saburo Takizawa, ex rappresentante nipponica presso l'istituzione onusiana, «i giapponesi hanno paura. Vedono gli immigrati come una minaccia, come persone così “diverse" da rendere impossibile immaginare che potrebbero integrarsi in una società, quella nipponica, ancora così omogenea e intollerante verso ogni forma di diversità».

Le alternative, però, non ci sono: con un tasso di natalità che non si discosta molto da quello dell'Italia, fermo a 1,4 nascite per donna, senza l'aiuto degli stranieri il Paese non sopravviverà. Per risolvere un problema apparentemente inconciliabile, il governo si è inventato le «fabbriche di migranti»: scuole in cui gli stranieri interessati a trasferirsi in Giappone per lavoro vengono letteralmente «riprogrammati», con l'obiettivo di metterli nelle condizioni di «integrarsi nel Paese, senza creare tensioni» ha precisato Takizawa, aggiungendo come il vero scopo di questa manovra sia duplice: «Dimostrare ai giapponesi che l'integrazione, se ben coordinata dall'alto, è possibile, e convincerli ad accettare politiche migratorie più importanti facendo capire che queste persone si trasferiscono nel nostro paese solo per aiutarci, quindi accoglierle conviene a tutti».

Tokyo, insomma, vuol far passare il messaggio secondo cui «chi non nasce giapponese, può diventarlo». Frequentando, nella nazione di origine, scuole a tempo pieno in cui non si impara solo la lingua ma anche la cultura, i modi di fare, i dialetti, le abitudini, i valori della società in cui ci si vuole trasferire. Senza trascurare i trucchi del mestiere del ruolo che si andrà a ricoprire: in questi centri nulla può essere lasciato al caso.

I primi progetti pilota sono partiti in Myanmar, dove decine di studentesse birmane ogni mattina si svegliano, arrotolano il futon, indossano gli abiti d'ordinanza, un camice blu o verde, accompagnato da pantaloni rigorosamente scuri, legano i capelli e si mettono al lavoro. Si inizia con una full immersion di giapponese (lettura, scrittura e conservazione), seguita da corsi specifici a seconda del percorso professionale cui si è stati assegnati. Gli atelier di «cultura Japan» si svolgono invece nel pomeriggio, e qui si impara a truccarsi in maniera impeccabile (in Giappone le donne devono essere belle, sempre), a preparare il tè, a cucinare piatti della tradizione giapponese, dalla zuppa di miso all'okonomiyaki, l'arte dell'ikebana; ma anche a rispettare l'autorità dei propri superiori, ad accettare di rimanere al lavoro fino a tardi, anche quando non necessario se così viene richiesto, a inchinarsi nella maniera giusta a seconda dell'importanza dell'interlocutore con cui ci si relaziona, a rispondere sempre col sorriso, anche se si viene rimproverati.

Le studentesse sono quasi tutte donne: le carenze di manodopera sono particolarmente abbondanti nell'hospitality, negli ospedali, negli asili, nelle case di cura, e nei servizi di pulizia, mestieri che in Giappone sono riservati esclusivamente al sesso femminile. Completato il percorso formativo, queste ragazze, per superare gli esami finali, devono dimostrare di aver talmente interiorizzato abitudini e modi di fare nipponici da poter essere scambiate per giovani locali. Per impedire che, una volta nel Paese, mettano radici, non vengono mai offerte prospettive di lavoro di lungo periodo. E guai a chi prova a sposare un giapponese per prolungare la permanenza. Tutti i visti sono a termine (pur con la possibilità di rinnovarli), il soggiorno non supera i cinque anni e nessuno apre le porte per la cittadinanza.

Appena un paio di anni fa il premier Shinzo Abe aveva dichiarato che il Giappone avrebbe dimostrato al mondo come far fronte al problema dell'invecchiamento della popolazione con la tecnologia, quindi con la robotizzazione piuttosto che con l'immigrazione. Del resto, l'80 per cento dei giapponesi continua ad ammettere di essere più disposto a essere accudito, curato e aiutato da un robot piuttosto che da una persona etnicamente e culturalmente «diversa».

I robot però non sono bastati. Il calo di popolazione attiva registrato tra il 2000 e il 2016, ossia quattro milioni di unità, è stato colmato per oltre il 60 per cento da «pensionati tornati attivi», per il 20 per cento da nuova occupazione femminile (da qui l'incremento della popolazione attiva di tre punti percentuali), ma il restante 20 per cento è rimasto scoperto, e le nuove tecnologie non sono ancora in grado di offrire soluzioni adeguate. A salvare il Sol Levante dal declino saranno davvero i nuovi «replicanti»?

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