Fenomenologia degli haters

Se non altro i bulli da marciapiede ci mettono la faccia. Si prendono la briga d'insultare il prossimo vis a vis senza nascondersi dietro un nickname e dietro una reciproca virtuale assenza data dal fatto che gli haters, di fatto, non conoscono fisicamente la persona che insultano.

Sono davvero virtuali gli insulti?

E' in questo gap concettuale che si cela il seme della violenza verbale cui gli odiatori della Rete sono capaci di arrivare. Il presunto anonimato concesso da internet in questa piazza globale dove tutti si sentono autorizzati a parlare su tutto ha scatenato quella che si sta trasformando in un'emergenza sociale alla quale è necessario far fronte.

Per comprendere il fenomeno degli haters bisogna capire con chi si ha a che fare. Si tratta di uomini e donne di ogni estrazione sociale e con i lavori più disparati che formano un popolo nel popolo e che stanno trasformando i social network in un luogo di odio più che libero scambio delle idee

L'universo degli haters, dei troll, delle shitstorm e del cyberbullismo cresce in maniera esponenziale utilizzando il concetto di gregge nella sua più infima accezione. 

Lanzichenecchi dell'odio on-line

Quello dell'hate speech, ovvero la spirale di insulti che si autoalimentano e infestano Internet, è diventato un fenomeno poco governabile. L'osservatorio Vox insieme all'Università di Milano, Bari e La Sapienza di Roma ha analizzato 2,6 milioni di tweet postati nell'arco di 12 mesi e ha cercato di mettere ordine nel mondo di chi odia per passione.

Sono emerse sei categorie essenziali contro cui si dirigono le shitstorm: al primo posto si trovano le donne, vittime del 63% dei tweet negativi analizzati, seguite dagli omosessuali, 10,8%, dai migranti, 10%, e poi da diversamente abili (6,4%) ed ebrei (2,2%).

Il campo semantico preferito per veicolare l'odio è quello legato alla morte, al sesso e alla violenza fisica sputata in faccia con cinismo e spietatezza presupponendo una superiorità verso l'interlocutore che, in sintesi, non dovrebbe stare in questo mondo. 

Giovanni Ziccardi, professore di Informatica Giuridica alla Statale di Milano, nel suo libro L'odio online.Violenza verbale e ossessioni in rete fa una distinzione: "Da una parte c'è l'hate speech, originato da cose importanti come razza, religione e credo politico, dall'altra c'è quello che io chiamo odio interpersonale, scaturito, invece, da cose banali, come per esempio l'elezione di Miss Italia o l'Oscar a Di Caprio". 

Una spirale che si autoalimenta

Il tratto comune alle due differenti forme di odio è la veemenza dell'insulto che si autoalimenta quando la conversazione attiva altri haters creando quella che viene chiamata echo chamber, chat in cui un gruppo utilizza l'effetto gregge per fomentare l'effetto valanga sulla persona presa di mira.

Quello che, secondo molti osservatori, sfugge all'hater medio è che dietro il profilo insultato ci sia un essere umano in carne e ossa, una persona con una vita vera, una famiglia vera, amici veri e una dignità.

La tastiera e i social tolgono umanità agli esseri umani e sputare le proprie sentenze vigliacche e gratuite è quanto mai facile. E' come tirare la pietra e nascondere la mano, fingersi bravi padri di famiglia e professionisti impeccabili per poi trasformarsi in seminatori di cattiveria online. Pietanza favorita che consuma il bulimico hater è la bufala. Condividere bufale farcite di qualunquismo e luogo comune attiva il meccanismo dell'odio generalizzato verso le categorie deboli oggetto dell'insulto dell'hater.

Il peso economico degli hater

Esistono anche conseguenze economiche per chi fa dell'odio una professione. Visto il peso crescente che hanno gli influencer nella vita sociale, politica e culturale del mondo essere oggetto dell'odio di un gruppo di persone può stroncare la reputazione di un influencer e danneggiarne la carriera.

Pensiamo a cosa succederebbe se migliaia di persone al mondo iniziassero a minare la credibilità di una Chiara Ferragni sostenendone l'incompetenza, insultandola e svilendone dignità e umanità.

Lo stesso accade se la shitstorm arriva su un brand che perde credibilità e clienti se danneggiato dalla violenza verbale degli haters.

Bene o male purchè se ne parli

E' anche vero che, dal punto di vista del marketing, l'hater genera engagement, ovvero coinvolgimento da parte dell'utente e il famoso "Bene o male purché se ne parli" è una verità valida a tutt'oggi. Creare dibattito genera i ranking ovvero i tassi di visibilità e influenza dei differenti personaggi e a fronte di tot numero di haters di solito rispondono altrettanti sostenitori che contribuiscono al dibattito generando comunque successo.

Regolamentare il fenomeno punendo i responsabili dell'odio social non è facile. Servirebbero leggi globali difficili da applicare visto che, a seconda delle latitudini, un insulto può essere più o meno pesante e quindi il reato più difficile da stabilire.

Quello che servirebbe è una cultura della civiltà online insegnando a scuola il rispetto per il prossimo e la dignità delle persone che vivono dall'altra parte della tastiera. Una sorta di educazione civica 2.0 della quale si sente profondamente la mancanza.

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