Facebook e le altre, sta scoppiando la bolla finanziaria delle big del tech?

Quando si vola troppo in alto, la caduta non può che essere fragorosa. Anche i mercati finanziari sono succubi di una banale legge della fisica.

Ne sa qualcosa Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook, che ha visto in una sola seduta, settimana scorsa, volatilizzarsi oltre 200 miliardi di dollari di capitalizzazione. E questo solo perché, per la prima volta nella sua Storia, gli utenti di Facebook hanno smesso di crescere. E quando il tuo valore di mercato è raddoppiato solo dall’inizio della pandemia, guadagnando ben oltre i 200 miliardi di dollari di valore, basta un refolo di vento a scuotere il miraggio della crescita infinita, per provocare la fuga dal titolo. Del resto il tema è proprio questo: fino a che punto in un mondo finito si può ipotizzare che le aziende crescano sempre e comunque, anno su anno, nei loro fatturati e utili? Il mantra paradossale che alimenta i sogni velleitari degli investitori, che si sono gettati in massa sui listini azionari e in particolare sul Nasdaq regno delle società hi tech, in un rally compulsivo che dura ormai senza soluzioni di continuità dalla crisi finanziaria del 2008.

Uno dei più lunghi cicli rialzisti della Storia. Del resto basta vedere le valutazioni di Borsa. Pur con la caduta del 20% in soli 5 giorni, Facebook o meglio Meta la sua società madre, vale oggi 660 miliardi di dollari. Ben 6 volte tutti i ricavi di un solo anno e 17 volte i suoi utili. Che anche nel 2021 sono cresciuti a quota 39 miliardi su 117 miliardi di ricavi. Eppure sono bastati i timori su un rallentamento del social network, insidiato dalla concorrenza di Tik Tok, per scatenare le vendite. Infatti è stato l’annuncio che il primo trimestre del 2022 vedrà un fatturato tra i 27 e i 29 miliardi contro i 33 miliardi segnati nell’ultimo trimestre del 2021, a fornire la prova del rallentamento del business.

E quando gli investitori valutano un titolo oltre 6 volte il suo fatturato annuo e ci sono avvisaglie di una frenata del business, allora la bolla esplode con fragore. Del resto più di un osservatore segnala che nel 2022 si entra per le Borse, il Nasdaq in particolare, nel regno “dell’inizio della fine”. La fine di un rialzo colossale, avviato dal 2009 grazie alla droga dell’immensa liquidità pompata dalle banche centrali, in abbinata ai tassi a zero.

Più di un decennio in cui l’abnorme massa di denaro immessa sul mercato, per arginare i postumi della grande crisi finanziaria, è finita gioco forza sulle Borse di tutto il mondo. Con le obbligazioni in territorio negativo quanto a rendimenti e la liquidità che non rendeva nulla, l’unico fronte su cui investire il denaro è stato quello delle Borse a livello globale.

Basti guardare qualche numero. Il solo Nasdaq è salito da 1.500 punti dalla primavera del 2009 ai 14mila punti attuali. Valore di fatto decuplicato in poco più di un decennio che neanche la pandemia ha arrestato.

Dallo scoppio della virulenza il listino tech ha raddoppiato il suo valore. E trend simili, nell’ultimo decennio, hanno mostrato lo S&P500 e in misura minore, ma sempre con rialzi a tripla cifra percentuali nel decennio, le borse europee. Un arricchimento mostruoso che segna ancor di più l’immenso divario che frappone l’economia reale e le rendite finanziarie. E ora lo scenario muta con il rialzo dei tassi e il drenaggio degli acquisti delle banche centrali. Ecco perché si prefigura uno stop alla crescita abnorme dei valori dei titoli azionari.

Se Facebook è inciampata per la prima volta, altri grandi colossi del tech Usa paiono reggere bene la loro corsa. Apple continua a sfornare crescite a doppia cifra.

Nel 2021 ha fatto ricavi per 365 miliardi e utili per 94. Apple è arrivata però a valere, prima della flessione delle settimane scorse, 3mila miliardi di dollari in Borsa, un livello mai sfiorato in precedenza. A quella soglia siamo a oltre e le 8 volte il fatturato annuo e oltre le 30 volte gli utili. E così per mantenere questi livelli di prezzo è costretta a crescere in continuazione nelle vendite dei suoi iphone e non solo. Una sorta di corsa infinita, quasi perversa che prevede che ogni trimestre gli utili salgano almeno del 20-30%. Il tutto per giustificare livelli di prezzo in Borsa che valgono enne volte in più di ricavi e utili. Copione analogo per Amazon, Google, per non parlare di Netflix e Tesla. Amazon la meno redditizia delle Faang, con i suoi margini operativi netti al 5-6% del fatturato contro i circa 30 di Apple, è comunque cresciuta lo stesso in Borsa a percentuali stellari. All’inizio del 2009 il titolo valeva solo 70 dollari, oggi l’azione è a quota 3.170 dollari. Difficile anche solo calcolare la percentuale di guadagno dal 2009 a oggi. Anche se la marginalità (dato il business che ha bisogno di volumi enormi per ricavare denaro) è lontana dagli altri Faang, Amazon è diventata il gigante mondiale del delivery e il più grande marketplace di beni di ogni natura a livello globale. Tutto passa dalla creatura di Bezos. E questo ne ha fatto il più grande monopolista di sempre del mercato. E i monopoli agli investitori di Borsa piacciono parecchio. Che dire di Google oggi Alphabet? Anche qui il segreto di tanto successo in Borsa è l’occupazione dello spazio digitale. Tutto sul web, dalla posta elettronica, alla ricerca, all’adv passa da Google. Inevitabile il continuo rialzo di ricavi e utili. Google è passata, come mostrano i dati storici raccolti da S&P Global market intelligence, da 23 miliardi di fatturato a fine 2009 a ben 257 miliardi prodotti nel 2021. Decuplicati, con gli utili che ormai valgono il 30% delle vendite. In Borsa il riflesso della progressione monstre dei risultati economici è stata di fatto una replica della crescita del fatturato con in più una bella amplificazione.

Google è passata da poco meno di 200 dollari degli inizi del 2009 ai 2.800 attuali. Per valere in Borsa oggi 1.850 miliardi di dollari. Anche in questo caso la borsa misura il valore del titolo intorno alle 7 volte in più dell’ultimo fatturato realizzato. Il marchio di fabbrica dei giganti della ex Silicon Valley è la crescita poderosa di vendite e guadagni, in una corsa folle a inventare nuovi prodotti ogni anno (leggi gli iphone) o nuovi servizi, allargando le maglie del business all’infinito. O creandoli in casa o comprando le aziende concorrenti, grazie all’immensa liquidità che hanno in pancia. Solo le prime 5 big tech Usa poggiano su oltre 500 miliardi di dollari di liquidità prontamente spendibile. L’effetto è il consolidamento esasperato di nuovi monopolisti, molte volte più potenti delle famose ex sette sorelle del petrolio degli anni Settanta. Ovviamente calamitando acquisti sempre più sostanziosi dagli investitori. In questa spirale esponenziale, che sfida la legge di gravità, l’incidente di percorso è sempre dietro l’angolo. Il caso di Facebook è li a ricordare che se solo il passo di marcia rallenta, allora in Borsa è la tempesta. E mentre fino a ieri il contesto esterno macro-economico (tassi a zero e moneta a go go dalle banche centrali) spingeva le vele, ora lo scenario è destinato a cambiare. La bolla più che decennale, magari non scoppierà fragorosamente, ma il ritorno sulla Terra è nelle cose.

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