Perché Elon Musk vuole comprare Twitter

Non occorre speculare troppo, la motivazione ufficiale la si rintraccia nel documento pubblico che contiene la sua offerta da capogiro, pari a circa 43 miliardi di dollari (54,2 dollari per azione): «Ho investito in Twitter perché credo nel suo potenziale di essere la piattaforma per la libertà di parola in tutto il mondo, e credo che la libertà di parola sia un imperativo sociale per una democrazia funzionante». Dunque, a detta di Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo (e della storia dell’umanità, secondo Forbes), comprarsi una piattaforma vuol dire assicurargli la libertà. Comportarsi da Re Sole, da sovrano assoluto di un medium, è un lasciapassare per la sua più sconfinata indipendenza.

Per quanto faccia un po’ a botte con la logica e il buon senso, il patron di Tesla ubbidisce a un suo schema mentale: trasformando il social network dei cinguettii in una creatura privata, un soggetto immune alle speculazioni della Borsa – tramite un univoco atto d’imperio – lo garantisce in quanto non più schiavo del profitto, ma radice e frutto di un atto di mecenatismo. Tutto si regge sulla buona fede di un singolo, non più su un concorso d’interessi di un gruppo d’azionisti.

A Elon Musk non si applicano i criteri tradizionali, qualunque prospettiva è ribaltata e possibile. Ne ha fatte di ogni, questo è il meno rispetto alle missioni nello spazio e alla democratizzazione dell’auto elettrica supersportiva, che sembrava un appannaggio esclusivo delle élite e invece, rate permettendo, diventa pop.

Di certo, l’imprenditore Iron Man ha bisogno di una grancassa, di uno strumento per far risuonare i suoi propositi, raccontare le sue idee strampalate e i progetti più assurdi che poi renderà reali, dai robot androidi nelle fabbriche al posto degli esseri umani, alle vetture senza conducente che scortano i passeggeri per l’ira funesta dei tassisti.

Un tempo si sarebbe accaparrato dei giornali, avrebbe fatto shopping di un network televisivo o di un ibrido delle due cose, visti i tempi si concentra su un’arena digitale che va oltre le geografie e le barriere linguistiche. Una Torre di Babele intercontinentale. Aveva favoleggiato di farsi la sua da zero, daccapo, ma sarebbe naufragato nel culto della personalità. Meglio partire da una che ha una base di utenti già bella corposa, sventolando la bandiera di volerla liberare usurpandola.

Certo, non sarà la più sexy, la più aggiornata a livello grafico, però per profondità del dibattito – e una certa tendenza all’engagement per esasperazione, polarizzazione, gusto della polemica – è la più efficace. Meglio del bollito Facebook, dei più superficiali e meno identitari Instagram e TikTok, le altre pletore di cloni che sono rifugio per ragazzini ancora troppo acerbi per mettere le mani al portafogli o scuotere la democrazia, quella vera o quella figlia del virtuale, a suon di voti.

Comprare Twitter per 43 miliardi di dollari vuol dire assicurarsi un trono a forma di megafono. Essere all’antitesi del riccone che investe e poi si gode i frutti della sua spesa. Elon Musk urla come un capopopolo sbruffone e sardonico, per questo deliziosamente irresistibile. Il social dell’uccellino blu era il suo giocattolo di fatto, così lo diventerebbe di diritto. Ci sarà tempo per il metaverso ed eventuali stregonerie digitali, intanto la tempra del carattere si misura in un pugno di caratteri.

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