Matteo Salvini (Getty Images).
Politica

Davanti alla Lega un nuovo percorso in Ue

È narrazione pressoché imperante che, con l'apertura nei confronti del governo Draghi, la Lega abbia attuato una «svolta europeista». Una «svolta» che, secondo molti analisti e commentatori più o meno critici, farebbe trasparire una buona dose di opportunismo da parte del Carroccio. Va bene che abbia aperto a Mario Draghi per questioni di salvezza nazionale – è il ragionamento di tanti – ma ciò non toglierebbe che – nel giro di una manciata di giorni – Matteo Salvini abbia gettato fondamentalmente alle ortiche i punti di riferimento politici e ideologici del suo partito. Addirittura qualcuno sostiene che la «svolta» sia una conseguenza delle ultime elezioni americane, il cui esito avrebbe spinto il Carroccio (in modo improvviso e non poco raffazzonato) a cambiare radicalmente posizione. Ora, il punto da capire è se le cose stiano realmente così. Perché, a ben vedere, il quadro appare «leggermente» più complesso.

Innanzitutto va sottolineato che la «svolta» sia maturata come punto finale di un percorso: un percorso che non è certo nato nelle ultime settimane o negli ultimi mesi, ma che affonda al contrario le proprie radici nel naufragio dell'esecutivo giallo-verde, verificatosi ad agosto del 2019. Quell'evento è stato vissuto non poco traumaticamente in seno al Carroccio e ha pertanto aperto un dibattito interno sulla necessità di fare della Lega un partito di governo. Un obiettivo, quest'ultimo, che non sarebbe perseguibile senza tessere degli adeguati legami internazionali (sul fronte europeo e non solo). È del resto in questo quadro che va inserita la figura di Mario Draghi. Perché, quando parliamo dell'attuale premier incaricato, c'è un punto che va chiarito in modo preciso. Un punto che si comprende al meglio attraverso un paragone con Mario Monti.

Nel 2011, Mario Monti fu un premier meccanicamente calato dall'alto, per espressa ed esclusiva volontà del Colle, all'epoca guidato da Giorgio Napolitano. Tant'è che, proprio per sugellare in qualche modo l'impronta quirinalizia, Napolitano decise di nominare Monti senatore a vita poco prima di conferirgli l'incarico per Palazzo Chigi. Il caso di Draghi è invece ben differente. Certo: anche stavolta il ruolo del Colle è stato fondamentale e quello che si avvia a nascere (piattaforma Rousseau permettendo) è un governo del presidente.

Resta tuttavia il fatto che – differentemente da quanto avvenne con Monti – il nome di Draghi è stato man mano inserito nel dibattito italiano – nel corso dell'ultimo anno e mezzo – non da figure tecniche, ma politiche: a partire da Giancarlo Giorgetti, che è il responsabile Esteri proprio della Lega. È ovvio che nell'entrata in scena dell'ex presidente della Bce sono concorsi svariati fattori (nazionali e internazionali): ma tra questi fattori compare un'azione non del tutto estranea al Carroccio. Questo per dire che sia quantomeno ingenuo ritenere che il nome di Draghi sia stato semplicemente subìto dalle parti di via Bellerio.

L'altro aspetto da tener presente è quello che riguarda la sostanza delle posizioni politiche. Almeno sinora, non sembra che la Lega abbia gettato alle ortiche le sue vecchie posizioni in tema di immigrazione ed Europa, a meno che non si voglia semplicisticamente ridurre le tesi del Carroccio su questi fronti a mere istanze radicalmente euroscettiche. Istanze che, per carità, nel partito hanno pur trovato un certo spazio negli scorsi anni. Ma che, al contempo, non lo hanno mai egemonizzato (soprattutto nel Nord Italia). La recente affermazione di Salvini, secondo cui «bisogna coinvolgere l'Europa in quello che non è un problema solo italiano» non è – come detto da molti – una «svolta». Magari lo sarà nei toni più istituzionali e concilianti, ma – nella sostanza – si tratta di una posizione che Salvini teneva di fatto già da ministro dell'Interno (tra l'altro, che l'Italia sia spesso stata lasciata sola da Bruxelles sulla questione migratoria non è neppure un tema posto in passato esclusivamente dalla Lega).

Anche il recente scontro, avvenuto all'interno del gruppo Identità e democrazia, tra il leghista Marco Zanni e l'esponente dell'Afd, Joerg Meuthen, presenta connotati più complessi di una semplicistica «svolta europeista»: ricordiamo che Meuthen aveva definito Draghi «responsabile della spesa senza controlli della Bce», considerandolo conseguentemente negativo per la Germania. Zanni ha quindi replicato: «Se qualcuno all'estero critica il professor Draghi per aver difeso l'economia, il lavoro e la pace sociale europea - quindi anche italiana - e non solo gli interessi tedeschi, questa per noi non sarebbe un'accusa, ma un titolo di merito». Il tema dunque non è la distruzione dell'Unione europea né tuttavia la sua acritica esaltazione: la sfida è semmai quella di considerare l'Unione europea come il «luogo» dove poter tutelare anche l'interesse nazionale (secondo quanto del resto già si vede all'opera con Angela Merkel ed Emmanuel Macron).

Posto che ci si trovi in una situazione ancora in evoluzione e non totalmente delineata, è forse utile chiedersi quali siano le potenzialità e quali i rischi della strategia leghista. Sul piano delle potenzialità, è chiaro che – aprendo a Draghi – il Carroccio stia perseguendo due obiettivi. Il primo è quello di accreditarsi come partito di governo sul piano internazionale, facendo tesoro dei problemi riscontrati ai tempi dell'esecutivo giallo-verde. Il secondo è quello di aver sparigliato le carte, disarticolando di fatto lo schieramento giallo-rosso: uno schieramento che si è ritrovato spaccato e (almeno per ora) oggettivamente costretto a giocare sulla difensiva.

Sparigliare le carte è un atteggiamento che – se ben adottato – può fornire importante risultati politici: lo insegna del resto il caso del Richelieu che, cardinale di Santa Romana Chiesa, si schierò a fianco dei protestanti durante la Guerra dei Trent'anni contro gli Asburgo. Una mossa che gli attirò scandalo e critiche, ma con cui portò la Francia al tavolo delle trattative in una posizione di forza. È ovvio tuttavia che una simile strategia abbia dei rischi: rischi a cui la Lega deve prestare molta attenzione. Fondamentale è in tal senso evitare di lasciarsi assorbire ipso facto (e quindi neutralizzare) dall'establishment che si sta cercando di riformare: sostanzialmente quanto accaduto al Movimento 5 Stelle dall'estate del 2019. Un pericolo che può essere evitato continuando a mantenere saldi legami con i territori ed elaborando una cultura politica articolata.

Infine, fuor di polemica, ci sono state svolte, nel corso della presente legislatura, stranamente digerite in modo molto meno problematico di questa. È inutile ricordare i tempi in cui i grillini assicuravano che non avrebbero mai governato con il Pd (da loro definito il «partito di Bibbiano»). Tutto questo, mentre lo stesso Pd a sua volta considerava i 5 Stelle come una forza potenzialmente sovversiva da arginare. Senza poi trascurare Matteo Renzi che, da solo, ha creato e disfatto il governo giallorosso nel giro di appena un anno e mezzo. Infine non può essere ignorato il paradosso di chi accusa contemporaneamente Matteo Salvini di opportunismo per aver aperto al governo Draghi e Giorgia Meloni di egoismo per essersene chiamata fuori.

C'è una «classe politica» (nel senso inteso da Gaetano Mosca) molto inquieta oggi in Italia per i movimenti che avvengono nel centrodestra. Una «classe politica» che sta cercando di chiudersi a riccio, ma che non sembra averne granché la forza. Molto dipenderà da come l'operazione della Lega si svilupperà nei prossimi mesi. Ma gli equilibri politici italiani potrebbero presto mutare. E, dopo molto tempo, (forse) non a sfavore del centrodestra.

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