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Cure a domicilio, al cinema: una medicina per guarire l’anima - La recensione

Lab 80 distribuzione, Ufficio stampa Lab 80 Sara Agostinelli
Vlasta (Alena Mhulová) in una scena del film accanto al marito Láda (Bolek Polívka)
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Vlasta (Alena Mhulová) con Hanácková (Tatiana Vilhelmová), la donna-amica che le farà scoprire una nuova parte di sé
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Vlasta e Hanácková (Alena Mhulová e Tatiana Vilhelmová) durante una seduta di pranoterapia
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Vlasta (Alena Mhulová): con la malattia ritrova la voglia di curare la qualità della sua vita e di viaggiare
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La vita di Vlasta (Alena Mhulová), infermiera a domicilio sui sentieri impervii della campagna ceca attraversata con generosità e amore per i suoi assistiti
Lab 80 distribuzione, Ufficio stampa Lab 80 Sara Agostinelli
Nel quieto realismo del regista Slávek Horák s'inserisce il grottesco: Vlasta (Alena Mhulová), dal destino segnato dal male, scivola in una tomba per recuperare il cellulare

Corre di qua e di  là per la campagna ceca. Con la sua borsa zeppa di cerotti, unguenti e pasticche e la sua volontà univoca d’aiutare gli altri. I suoi pazienti. Fra tristi realtà di malattia, corpi patologici, sporcizia, affetto e riconoscenza. È Vlasta (Alena Mhulová), l’infermiera protagonista di Cure a domicilio (in sala dal 26 ottobre, durata 90’) dell’esordiente Slávek Horák, 42enne di Zlín, Repubblica Ceca, arrivato al film dopo due cortometraggi ed aver fatto l’assistente a quel Jan Svěrák vincitore nel ’96 dell’Oscar per la miglior opera in lingua straniera con Kolja.

Non gran che, si dirà, ma quanto basta per salutare la nascita di un autore raccolto e sensibile (comunque già pluripremiato ai festival), narratore attento di una storia certo dolente ma non per questo meno intima e leggera, elaborata su una figura che vive di generosa applicazione, trascurando soprattutto se stessa, non la sua casa e neppure il marito Láda (Bolek Polívka) pigramente affettuoso, amante della birra, del divano e della tv.

Mondi meditativi e spirituali per contrastare il male

Ma c’è un fulmine su questa vita che sembra correre in una sola direzione, provocandone deviazioni improvvise:  la scoperta della malattia che nel giro di pochi mesi  farà spegnere la luce di Vlasta. La quale, dopo qualche giorno di accorato stordimento, trova nella figlia d’una sua assistita la spinta per una nuova forma d’esistenza. La giovine si chiama Hanácková (Tatiana Vilhelmová), è pranoterapeuta, frequenta  mondi meditativi e spirituali e diventa la migliore amica di Vlasta. Alla quale trasmette, oltre il calore delle mani, il fervore d’un affetto sincero e premuroso, la cura dell’anima, la voglia di rinascere. Accompagnando, insieme con le ritrovate intese famigliari di un marito pur sempre attonito ma ora smarrito e disperatamente protettivo, l’ultima tranche de vie di Vlasta in climi di lieve, quasi frivola e pur consapevole gaiezza.

Realismo quieto, interiorizzato, a tratti “magico”

Energie vitali e spirituali,  recupero di femminilità perdute, una manciata di mesi davanti prima d’un esito ineludibile, caratteri profondi. Su queste basi Horák costruisce un film per molti versi sorprendente, recitato magnificamente – specie da Alena Mhulová, ma Bolek Polívka non le è da meno - percorso da un realismo quieto e molto interiorizzato, asciutto, scarno, pieno di dolcezza e soprattutto col merito di dribblare i modi della facile complainte.

Senza, con questo, concedersi esclusivamente al percorso orizzontale e affidabile d’un racconto “riparato” e senza rischi ma tentando in qualche occasione – e con successo – l’esperienza più fantasiosa, visionaria o addirittura ai confini del “realismo magico” (versante cinema ungherese degli anni Settanta) col concorso di elementi surreali o grotteschi: come quello legato all’immagine di un Paese un po’ matto  che finanzia una complessa opera stradale per costruire una galleria riservata al transito delle rane.

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