Politica
September 17 2016
Tutto si è detto e scritto di Ciampi. Impossibile andare oltre, pretendere di dire altro, di fronte a una personalità che ha segnato la storia italiana del Dopoguerra da governatore della Banca d’Italia, presidente del Consiglio tecnico e capo dello Stato che rifiuta il secondo mandato.
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Si è detto e scritto: che Ciampi è il Presidente che ha sdoganato la parola Nazione a sinistra restaurando il patriottismo del 2 giugno, che ha portato l’Italia nell’Euro (con tutti i chiaro-scuri di un’operazione troppo facile da censurare oggi, rispetto l’austerità imposta da Francoforte con la soglia del 3 per cento di sforamento del deficit), e che la sua presidenza ha introdotto nel gergo politico italiano il termine “bipartisan”.
Ciampi è il Presidente che a differenza di predecessori e successori quali Oscar Luigi Scalfaro e Giorgio Napolitano ha saputo fino all’ultimo tenere una posizione di relativa equidistanza tra gli schieramenti (nonostante la sua biografia riduttivamente assimilabile a sinistra). Ciampi era un laico e un moderato. È stato l’unico Presidente ad avere un rapporto mai davvero burrascoso con Berlusconi, nonostante ne abbia rinviato un paio di leggi alle Camere su aspetti cruciali della politica nazionale. Culturalmente, ha avuto il coraggio storico di andare a El Alamein a dire che non bisognava vergognarsi d’aver combattuto da italiani nella Seconda guerra mondiale.
Si è scritto e detto pure del suo rapporto con la Germania, fondato sulla fiducia reciproca ma anche sulla necessità di tutelare l’interesse nazionale. Si è elogiato il suo europeismo convinto. E, soprattutto, si è sottolineata la natura tecnica del suo potere, laddove l’ascesa di capi di governo tecnici, soppesata alla luce di una cultura liberale, contraddice i princìpi di una sana democrazia.
Negli Stati Uniti, nel mondo anglosassone, il prototipo “ciampiano” di premier tecnico non sarebbe comprensibile. Eppure, la responsabilità di questa deformazione della democrazia non è colpa di Ciampi, ma della cronica instabilità e confusione della politica italiana, in primis dell’area che ne ha beneficiato in questi anni.
Tutto è stato detto, ma poco e tra le righe, dell’ultimo Ciampi, che stando alle testimonianze di chi più gli è stato vicino, aveva maturato un lucido scetticismo. La frase che gli viene attribuita - “Questa non è l’Italia che avevo sognato” – è terribile. Diceva così, forse, perché aveva visto non attecchire la sua eroica battaglia per risuscitare il senso d’appartenenza all’Italia, a una vera coscienza nazionale. O, forse, perché la società civile tanto decantata si era via via risolta nell’affermazione di una protesta fine a sé stessa, aliena al merito e alle competenze, e slegata dalle responsabilità. Forse, infine, per il declino delle istituzioni e lo spettacolo di generazioni in conflitto tra loro, tanto che i nostri giovani sono sempre di più indotti a emigrare.
Mi colpisce di Ciampi il silenzio degli ultimi anni, non solo dovuto alla malattia.
E mi restano, come suggestioni nella sua biografia, alcuni particolari.