Chef Rubio: "Ho detto no al cinema, ora sogno un programma sui viaggi"

Dal patinato gastrofighettismo di MasterChef al trionfo godurioso di grigliate e barbecue. Parte lunedì 27 ottobre I re della griglia, il nuovo talent show di DMax (canale 52 del digitale terrestre) in cui nove concorrenti si sfidano per la vittoria, ovvero la pubblicazione di un libro di ricette e la partecipazione ai campionati mondiali di barbecue, in Svezia il prossimo giugno. A giudicare le prove saranno l’allevatore creativo Paolo Parisi, il cuoco Cristiano Tomei e il poliedrico Chef Rubio, ovvero Gabriele Rubini, sempre di più personaggio icona dalla popolarità trasversale. A Panorama.it racconta perché, nonostante le perplessità sui talent, abbia accettato di partecipare e per la prima volta svela le sfumature agrodolci del successo e quella che considera la sua "missione”. 

Gabriele, partiamo da I re della griglia. Per usare una metafora culinaria, sulla carta il format è piuttosto appetitoso.

Credimi, lo è. È stato complesso da realizzare ma c’è una bella amalgama di personalità. Il nostro intento era remare verso la severità ma con la volontà cieca di prendersi poco sul serio. Si può essere competenti senza perdere la goliardia.

Piccolo passo indietro: ma tu non eri un anti-talent? Come ti hanno convinto?

Ho fatto ammenda delle mie presupposizioni: è giusto che abbia detto di sì perché ho avuto la totale libertà di interpretare con ironia e fare benevolo il mio ruolo. Non giudico come un esaltato, non sono mai stato più duro di un finto duro come ho visto altrove. Li ho guardati tutti gli altri talent di cucina, almeno cinque minuti prima di addormentarmi o di alzarmi stizzito dal divano. I re della griglia è un’altra cosa.

Curiosa la scelta di incentrare tutto un programma sulla griglia: c’è così tanto da scoprire?

Sì. Nella nostra testa la grigliata sta tra Pasquetta e il primo maggio. L’abbiamo sempre ritenuta di poco spessore ma non è corretto per la storia che ha: i sardi hanno inventato secoli fa la cottura allo spiedo, tutto il mondo la usa e noi poco. La cottura alla griglia va trattata con sapienza e coscienza, rispettando gli ingredienti: sfateremo miti e convinzioni.

50 sfumature di barbecue, insomma.

Ero ferrato su tante cose, su altre no ed è stato bello scoprire tecniche o piatti che non avevo mai visto. Alla griglia ci si diverte tutti, è un momento conviviale e per questo mi piace. E poi è duttile e una volta imparate le temperature ci si può fare di tutto.

Che cosa porti di te in questo programma?

Porto me stesso: cerco di far passare quello che so, con la mia indolenza e il mio essere scanzonato, tipico di una certa comicità romana.

Per ora invece non è confermata la terza edizione di Unti e bisunti.

Se ci sono i presupposti per fare cose nuove e diverse sono pronto a farla. So che ci sono molte richieste da parte del pubblico, dunque vedremo.

Ti attribuiscono il merito di aver rilanciato lo street food all’italiana. Soddisfatto?

Mi dessero una percentuale allora (dice ridendo). Scherzi a parte, penso che l’interesse per la cucina di strada sia dovuto a diversi fattori, anche in parte alla crisi: da signor nessuno ho avuto solo la possibilità di raccontarlo. Sono un sognatore e vorrei che chiunque fa del buon cibo venisse giustamente osannato. Purtroppo in mezzo allo street food c’è anche tanta approssimazione, un vorrei ma non posso.

Vista la popolarità dirompente, hai avuto proposte dalla tivù generalista?

Ci sono stati diversi contatti, anche per il cinema. Ho declinato in maniera educata perché non voglio mancare di rispetto a DMax, che in questi due anni mi ha permesso di dire la mia. Ammetto di essere lusingato perché vuol dire che qualcosa ho smosso.

Non rischi di scivolare sul terreno vischioso del rimpianto?

Un passo alla volta è meglio di un salto: sono istintivo ma anche razionale. Sono io che guido il treno e decido quali fermate fare. Se ho detto no è giusto così: dal cinema ad esempio ho avuto proposte da registi di spessore, ma per come sono fatto avrei voluto affrontare la cosa con grande preparazione. In futuro vedremo.

I viaggi sono un’altra tua grande passione. Ti piacerebbe farci un programma?

Non vorrei altro. In questi due anni ho raccontato me stesso, ora vorrei raccontare gli altri. La cucina è condivisione e la mia missione è condividere: se non me lo fanno fare, me lo faccio da solo.

Da due anni sei nel vortice della popolarità, di quella che stordisce e può lasciare qualche ammaccatura. Come si fa a restare in equilibrio?

Prendendosi qualche momento per sé. Quest’estate me ne sono andato alle Azzorre per un viaggio in solitaria: di base sono un orso e avevo bisogno di dedicarmi a me stesso, di disintossicarmi da tutta la situazione. Ho bisogno di momenti miei. Vengo da una settimana appagante da Alessandro Breda, lo chef del Gellius di Oderzo che considero il mio mentore: quindici ore all’interno di una cucina per me sono tantissime, ho bisogno di continuare il processo di apprendimento.

L’apertura di un ristorante non è ancora contemplata nei tuoi progetti?

Voglio continuare a imparare dalle persone, rubare qualcosa, impastarlo con ciò che so. Quando sarò sazio, mi fermerò ad aprire un posto tutto mio. Per ora sono io che devo andare a imparare, viaggiando e conoscendo: stare dentro quattro mura sarebbe riduttivo.

Nel cassetto c’è anche un libro da scrivere.

Ne ho fatto uno su Unti e Bisunti, che considero un tributo morale a quelli che hanno lavorato al progetto, e uno sulla Dieta mediterranea. Ma il mio primo libro vero devo ancora scriverlo: ho tante cose in testa perché ho molti interessi oltre alla cucina, sennò la mia vita sarebbe noiosa e senza stimoli. Vorrei parlare di viaggi, fisici e dentro l’anima, parlare di me o di un fittizio alter ego, di amore, passioni e perversioni. Vorrei finire Traslochi funebri, che ho scritto per diverso tempo a quattro mani Luisa Rinaldi, che ora sta in Australia: è curioso perché scrivevamo una pagina testa e ora toccherebbe a lei andare avanti. Anzi, se mi leggi Luisa, vai avanti.

Cos’è per te il successo?

È una percezione che hanno soprattutto le persone che mi sono vicine. Io ho vissuto l’interessamento nei miei confronti in modo graduale, sono gli altri me lo fanno notare. Per me è solo lavoro, a tratti sfiancante ma sempre piacevole.

Il più grande tormento, il risvolto agrodolce?

Non avere il tempo per coltivare gli affetti. È la dolce condanna che mi sono preso, il dedicarmi agli altri come massa e non come singoli. È complesso da spiegare. Mi tengo le amicizie profonde, quelle vere che capiscono cosa sto vivendo, che non pretendono telefonate ogni giorno. L’amore è difficile gestire, a tratti è inconciliabile con la mia vocazione al lavoro. Per evitare di fare danni, cerco di non innamorarmi.

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