Raniolo: «Autonomia differenziata come territorializzazione della politica»

Lo scorso 23 gennaio è stato approvato al Senato il disegno di legge recante disposizioni sulla “Autonomia differenziata”, divenuto il cavallo di battaglia del Ministro per gli Affari regionali e le autonomie Roberto Calderoli, storico deputato della Lega. Passando alla Camera dei deputati, il Ddl attuerà la norma contenuta nell’ultimo comma dell’art. 116 della Costituzione sulle “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, con la possibilità per le Regioni, appunto, di vedere aumentata la propria capacità autonomistica.

A scatenare il prevedibile dibattito politico di questi giorni è stata la reale possibilità che su tutto il territorio nazionale vengano assicurati gli stessi standard qualitativi nella erogazione delle prestazioni ritenute “essenziali”, gli ormai ben noti Lep: e così proprio la corretta disponibilità delle risorse potrebbe diventare “ex lege” una nuova fonte di squilibrio economico e sociale tra le Regioni. Ancora nella Carta costituzionale, all’art. 119, è prevista la promozione delle forme di sviluppo economico, coesivo e solidaristico-sociale finalizzato ad impedire che ostacoli e squilibri economici e sociali possano creare contrasto con l’art. 3 della stessa Carta, ovvero con il principio dell’uguaglianza formale e sostanziale. Autonomia differenziata, allora, ma nel solco ineludibile della Costituzione. Inevitabile, a questo punto, lo sguardo all’ultimo quarantennio: «l’autonomia differenziata, sostiene Raniolo, è l’ultimo atto di un lungo processo iniziato con la prima destrutturazione del sistema politico italiano avvenuto nel biennio ‘92-‘94. La crisi degli assetti della Prima Repubblica aveva rimesso in discussione anche gli equilibri centro-periferia, già in fibrillazione nel corso degli anni ’80 con la comparsa di diversi partiti del territorio confluiti poi, nel 1991, nella “Lega Nord per l’indipendenza della Padania” di Umberto Bossi. Non è un caso che gli anni Novanta si sono aperti con la celebre legge 142 del 1990 sul riordino delle autonomie locali».

Alle domande di Panorama.it Francesco Raniolo ha ricostruito il tessuto storico-politico in cui è maturata la normativa che tanto sta facendo discutere nelle ultime settimane.

Professore, un sostantivo (autonomia) e un aggettivo (differenziata) spopolano in questi giorni…

«Da Hans Kelsen in avanti “autonomia” sta in contrasto con “eteronomia”, la capacità di darsi le leggi da sé piuttosto che siano altri a darcele. Regionalismo, federalismo e autonomismo stanno ad indicare ideologie e dottrine contrarie al centralismo, ma anche formati istituzionali, modelli organizzativi dei poteri pubblici. Soluzioni diverse per grado ed intensità del criterio per cui la risoluzione dei problemi collettivi va cercata al livello territoriale dove emergono e dove la prossimità con i cittadini è maggiore».

Le basi storico-politologiche sono insostituibili…

«Nel corso degli ultimi decenni del XX secolo conosciamo innovazioni tecnologiche (la rivoluzione digitale), globalizzazione, democratizzazioni (basti pensare al crollo del muro di Berlino, 1989) e altri cambiamenti ancora che determinano la crisi territoriale, di efficienza e di legittimità dello Stato così come lo abbiamo conosciuto negli ultimi tre secoli».

Scenario del tutto innovativo, diremmo.

«Il “decentramento”, o meglio la “federalizzazione” diventa una delle possibili risposte alla “crisi per eccesso di Stato”, per usare un’espressione di Gianfranco Poggi, tanto più in casi come quello italiano dove lo stato centrale è inefficiente e oggi sempre più delegittimato. Ancora una volta non è un caso che la questione federale vada di pari passo con il dibattito sulle riforme istituzionali».

Ci perdoni: giusto per rimanere all’ultimo quarantennio, qualcosa del genere la elaborò il celebre “Gruppo di Milano” diretto da un politologo di razza come Gianfranco Miglio…

«In effetti, il “Gruppo” di Miglio elaborò, nel 1983, il progetto “Verso una nuova costituzione”, individuando delle linee di intervento ben precise volte a superare il “parlamentarismo integrale” che sembrano essere state scritte in questi giorni: rafforzamento del governo guidato da un primo ministro dotato di maggiori poteri ed eletto direttamente e fine del bicameralismo perfetto, con l'istituzione di un Senato delle regioni sul modello del Bundesrat tedesco che rinviava a un forte impianto federale».

Quell’elaborazione teorica non approdò mai sul piano concreto…

«Allora (ma anche per molto tempo dopo) non c’erano le condizioni per intraprendere una riforma di tale portata, anche perché i tre principali partiti (Dc, Pci e Psi) non erano interessati. Resta, comunque, che la questione della trasformazione in senso federale della Repubblica trovò in quel lavoro una significativa fonte dottrinale».

Anche il tema della territorializzazione della politica è da sempre conducente.

«L’espressione va intensa nel senso che i territori diventano protagonisti cruciali della politica. Negli anni Ottanta e soprattutto Novanta questo profilo si materializzò con il successo dei partiti territoriali in tutta Europa (regionali, nazionali, autonomisti): essi fondarono la loro ragion d’essere proprio sulla rappresentanza delle domande di specifiche comunità territoriali, di identità locali o subnazionali».

Quel ventennio fu un pullulare di partiti etno-regionalisti…

«Partiti nuovi, talvolta detti “sfidanti” rispetto ai partiti tradizionali, che rivendicavano la scena politica, riuscendo spesso a dare un’impronta più federale alla rappresentanza democratica. Spagna, Belgio, Olanda e Italia i paesi dove tali dinamiche apparvero più evidenti, mentre molti partiti tradizionali si affrettavano ad attivare trasformazioni federali della loro organizzazione interna».

Questo è il profilo politico: c’è poi quello amministrativo…

«La difficoltà dello Stato centrale di rispondere in maniera efficace ed efficiente ai problemi delle comunità, delle collettività, ma anche la sua perdita di legittimità, come dicevamo, spianò la strada al processo di “federalizzazione” intesa come decentramento regionale negli Stati unitari, con spinte federative sempre più marcate, fino alla soglia della secessione, come accadde nei paesi regionalisti o federali. In ogni caso il punto era di trovare un equilibrio tra “efficienza produttiva” dei servizi pubblici che spinge verso la centralizzazione e “convenienza di utilizzo” che trova nella scala subnazionale la dimensione ottimale».

La federalizzazione diventava pressante, se ricordiamo bene…

«Il punto è, però, che essa non è solo una premessa di efficienza, ma anche una promessa di identità, il che porta con sé un potenziale conflittuale verticale (tra centro e periferia) e orizzontale (tra periferie specie tra quelle più ricche e quelle povere)».

A questo punto ci consegni una definizione di federalismo!

«Non è agevole in poche battute. All’ingrosso, il federalismo è, insieme, un’agenda politica e un equilibrio indotto dalla struttura istituzionale. Un modo per bilanciare “unità” e “diversità”, accentramento e decentramento. Ne consegue l’enfasi su aspetti specifici: la limitazione del potere del governo centrale, la maggiore rappresentatività e capacità di risposta alle domande locali, o, ancora, la realizzazione di una convivenza pacifica. Non dimenticando però il caso di quelli che sono stati chiamati pseudo-federalismi o federalismi fantoccio (l’Unione sovietica e l’America latina, in passato, la Russia oggi, ma diverse criticità riguardano anche l’India, o l’Iraq e altri paesi specie in Africa)».

Insomma il federalismo come sistema complesso e ideologico, ma anche come processo multi-livello…

«Come un processo in divenire, direi, come sosteneva uno dei grandi teorici del federalismo, Carl Friedrich, per il quale esso è l’esito del più complesso “processo di federalizzazione”, non sempre scontato nei suoi esiti finali: può progredire come regredire. L’autonomia legislativa, competenziale, fiscale può aumentare in certe fasi o ridursi in altre: eventi come la crisi economica del 2008, o le guerre in corso, hanno prodotto un po' ovunque effetti di ricentralizzazione. Anche il Covid ha creato spinte centraliste forti, ma anche conflitti con le realtà subnazionali (si ricordi quello che è successo in Italia)».

A proposito: ricordiamo con preoccupazione la crisi economica del 2008!

«Non è un caso che proprio il superamento degli effetti diretti della grande recessione (2008) impresse un’accelerazione alle rivendicazioni autonomiste in Catalogna con il referendum sull’indipendenza del 2017, dichiarato incostituzionale dal Tribunale Costituzionale, con l’apertura di una crisi istituzionale senza precedenti. In Italia, negli stessi anni, si ebbero le prime spinte di alcune regioni del Nord verso “ulteriori forme di autonomie” rese possibili dalla riforma costituzionale del Titolo V del 2001 (Lombardia e Veneto, ma anche altre regioni), che si tradussero in altrettanti referendum consultivi tenutisi nel 2017».

Sempre nell’ottica dell’autonomia differenziata, da cui siamo partiti e a cui ritorniamo, esistono diverse forme di federalismo…

«Gli studiosi si sono sbizzarriti nel precisare forme e tipi. Le geometrie federative e del decentramento sono piuttosto ricche nelle forme, nelle condizioni e negli esiti». Personalmente trovo molto suggestiva l’immagine di Luciano Vandelli, oramai risalante a diversi anni, della “fantasiosa plasmabilità dello Stato composito”.

Queste sfumature non sono di poco conto, perché materializzano anche uno scontro tutto interno alle regioni: diremmo uno scontro “tra le regioni” …

«Come dicevo, la processualità inter-regionale alimenta anzitutto un conflitto verticale, con il “centro” (federale o nazionale), una sorta di gioco a somma zero in alcune visioni, tanto più il sistema si federa-regionalizza tanto più il centro perde potere. Questo è il motivo per cui, a partire dalla tradizione statunitense, il federalismo è visto quale temperamento del presidenzialismo. Tema evocato, anche se in maniera strampalata, dal combinato disposto premierato-regionalismo differenziato. Strampalata perché un discorso del genere ha una portata sistemica che refluisce sull’intera architettura della Repubblica».

A proposito di sfumature…

«Alfred Stepan, uno dei politologi più autorevoli su questo tema, ha teorizzato il passaggio da un federalismo per aggregazione (come together), come negli Usa, in cui i singoli Stati federali si uniscono per affrontare problemi collettivi rilevanti, a un federalismo per dissociazione (holding together), strumento per tenere assieme regioni che in realtà preferirebbero andarsene per conto loro. Potremmo dire che tra i due tipi passa lo stesso rapporto che c’è tra un matrimonio e una separazione consensuale: si continua a convivere ma le premesse di principio e le pratiche sono radicalmente diverse. La vicenda catalana evoca bene questa tensione e conflitto latente che alla lunga può minare la stessa stabilità del sistema politico».

Dalle differenze alla differenziazione, il passo è breve…

«La storia del nostro paese, almeno dalla Prima Guerra Mondiale, come hanno evidenziato magistralmente Gianfranco Viesti ed Emanuele Felice, e a partire dal fascismo, è una storia di differenze e di divari che si cronicizzano e si allargano. Gli anni Cinquanta e parzialmente il decennio successivo sono il periodo nel quale la forbice tra regioni del Centro-Nord e Sud si riduce. Dopo di che inizia la corsa -per riprendere un’immagine dell’esperienza regionalista spagnola- a differenziarsi: le “lepri” del centro-nord corrono e le “tartarughe” del Sud arrancano, tranne poche e limitate eccezioni».

Non è che dopo la crisi economica del 2008 e la Pandemia del biennio ‘20-‘21 si rischia di allargare i “divari” tra regioni e territori?

«Proprio così. Corriamo il rischio di passare dai “divari” alla “deriva” delle regioni del Sud. Il problema non è solo di base economica, di capacità produttiva e competitività, ma anche di qualità delle istituzioni, di efficacia delle politiche, di divari civili o di cittadinanza (per seguire l’analisi di altri due economisti come Domenico Cersosimo e Rosanna Nisticò). Non solo il gap economico si è allargato, ma i meccanismi pubblici di riequilibrio e compensazione non hanno funzionato. Se non per creare una “autonomia senza sviluppo”, per citare Carlo Trigilia».

Fase rischiosa, insomma…

«In tale situazione l’autonomia differenziata piuttosto che realizzare lo scenario spagnoleggiante di café para todos (il regionalismo differenziato come occasione per aumentare i poteri di tutte le regioni responsabilizzando le classi dirigenti), comporta una situazione in cui le vulnerabilità di contesto si mangiano le potenzialità delle innovazioni istituzionali».

Con quali pericoli, professore?

«Molteplici. La rottura del patto costituzionale, del patto di solidarietà politica, del “contratto sociale” che è alla base della vita politica del Paese. Come dicevo, l’allargamento dei divari dei territori più vulnerabili proprio per carenze di un adeguato assetto istituzionale. Mentre l’autonomia differenziata così come la realizzazione del PNRR presupporrebbe un adeguato tessuto istituzionale (si veda, per es., il caso della sanità Calabrese durante il Covid). Insomma, la scommessa è quella della capacity building: le riforme sarebbero le chiavi ma le serrature dipendono da altri fattori».

Professore, mi perdoni, ma il Ddl Calderoli è stato votato a anche dai presidenti delle Regioni del Sud! Qualcosa non quadra…

«Beh, ma perché stupirsi! Questo è una conferma che la politica ha le sue leggi. Basta ricordare l’inversione delle preferenze tra Dc e Pci sull’ordinamento regionale negli anni Quaranta e Cinquanta. La “politica partigiana” ha il sopravvento sulla “politica sostantiva”: Basilicata, Calabria, e Sicilia si sono allineate alle logiche di schieramento prevalenti al centro e allo scambio tra Lega e FdI/FI. Anche se non sono da escludere valutazioni dei singoli governatori dirette a portare avanti giochi tattici propri. Un conto sono le riforme viste a tavolino, un altro e ben diverso conto sono le riforme realizzate. I cambiamenti prodotti dalla “ragione” (teorica, astratta) e quelli prodotti dalle “peripezie” (cito Ortega Y Gasset) che riflettono l’adattabilità alle condizioni (politiche e non solo) del contesto».

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Francesco Raniolo è ordinario di Scienza politica e Politica comparata nel Dipartimento di scienze politiche e sociali dell’Università della Calabria, di cui è stato anche direttore. Vanta un’ampia competenza in materia di partiti politici e partecipazione politica. Nella nuova edizione è in uscita il fortunato “La partecipazione politica” (Il Mulino, 2024) in cui l’Autore sostiene il paradosso di democrazie che mentre si estendono di numero perdono di intensità rispetto all’attaccamento dei cittadini. Nei lavori più recenti (come in “Disuguaglianza e Democrazia”, scritto con il celebre politologo Leonardo Morlino per Mondadori) l’attenzione è stata rivolta alle cause interne, sociali ed economiche, della protesta.

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