Attentato a San Pietroburgo: la pista islamista

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La fermata della metropolitana di San Pietroburgo dove è esplosa la bomba - 3 aprile 2017
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Polizia e pompieri nel centro di San Pietroburgo sul luogo dell'esplosione della bomba del 3 aprile 2017
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Le prime immagini su Twitter della bomba esplosa nella metro di San Pietroburgo - 3 aprile 2017
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I pompieri all'uscita della metropolitana di San Pietroburgo dove è esplosa una bomba - 3 aprile 2017
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Il presidente russo Vladimir Putin dopo aver saputo dell'attentato a San Pietroburgo - 7 aprile 2017
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Le prime immagini su Twitter della bomba esplosa nella metro di San Pietroburgo - 3 aprile 2017
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Una foto postata su Twitter delle bombe esplose a San pietroburgo - 3 aprile 2017

Le esplosioni alle stazioni Metro di Sennaya Ploshchad e Teknologicheskiy Insitut di San Pietroburgo hanno tutte le carte in regola per essere classificate come “attentato terroristico”.

Certo, è ancora presto per fare qualsiasi ipotesi ma, se dovesse essere confermata la pista terroristica e in attesa di possibili rivendicazioni, sarebbe alta la probabilità di un legame con il fondamentalismo islamico. E, in particolare, alla sua componente caucasica, che già in passato in Russia ha colpito e mietuto numerose vittime. Come non ricordare i 130 morti nell’ottobre del 2002 al teatro Dubrovka di Mosca e i 333 (di cui 186 bambini) della scuola di Belsan, in Ossezia del Nord?

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Tra gli islamisti del Caucaso si distunguono in particolare i ceceni, che covano il risentimento anti-russo sin dalla prima guerra cecena (1994-1996): più recentemente, dal’attentato di Boston dell’aprile 2013 perpetrato dai due fratelli ceceni alle minacce avanzate da Doku Umarov, leader dell'Emirato del Caucaso - milizia islamica nata dopo le due guerre di Cecenia - ucciso nel settembre 2013, passando per l’attentato del 21 ottobre dello stesso anno a Volgograd, nel quale un’attentatrice daghestana si era fatta esplodere in un autobus causando diverse vittime, sono numerosi gli esempi di attentatori ceceni, per lo più kamikaze.

Tra essi si distinguono leshahidki (plurale di shahidka, termine che lega il suffisso femminile russo alla parola araba shahid, “martire”), ovvero le donne cecene che hanno compiuto attacchi suicidi in nome del Jihad islamico e che sono meglio note alla stampa come “vedove nere”.

Le minacce di Isis e Al Qaeda
"Ascolta Putin, verremo in Russia e vi uccideremo nelle vostre case [...] Oh fratelli, conducete il jihad e uccideteli e combatteteli" dichiarava lo Stato Islamico a fine luglio 2016, a poca distanza dall’abbattimento di un elicottero russo nel settore di Idlib. In quel caso, ad abbattere l’elicottero erano però stati i ribelli qaedisti del Fronte Al Nusra, oggi Jaish Fateh Al Sham.

E proprio Al Qaeda, nell’ultimo numero di Al Haqiqa, magazine qaedista online, in quarta di copertina lanciava la sua minaccia velata ai russi: "Non dimenticheremo la lotta per Aleppo", in riferimento proprio al ruolo giocato da Mosca nella furiosa battaglia per stroncare la resistenza ribelle ad Aleppo, dove i soldati russi in appoggio alle forze siriane di Bashar Al Assad hanno seguito la stessa tecnica che fu vincente nell’assedio di Grozny, durante la guerra cecena: lasciar morire di fame gli assediati, sfiancando i ribelli con bombardamenti indiscriminati (anche sugli ospedali).

Aleppo, come noto, è infine stata ripresa dal regime siriano, ma la brutalità con cui si è raggiunto l’obiettivo non poteva non lasciare dei segni. Ed è così che può essere partita la “vendetta”, che ora sembra concretizzarsi anche con attacchi terroristici in territorio russo.

Il Cremlino sapeva fin dall’inizio che l’intervento militare in Siria, deciso nell’ottobre del 2015 in favore di Assad, avrebbe comportato dei rischi crescenti per la sicurezza nazionale russa, e avrebbe risvegliato il risentimento delle repubbliche caucasiche, dove l’Islam radicale è di casa da sempre.

Caucaso e Cecenia, culla del risentimento
La brutalità di Aleppo, che ha portato acqua all’odio islamista contro la Russia - dove i radicali musulmani sono considerati una delle più gravi minacce alla sicurezza interna - ha certo costituito una spinta motivazionale per quanti, specie nel Caucaso, si sono votati al Jihad.

Il Caucaso ha offerto un numero altissimo di combattenti allo Stato Islamico e da lì provengono alcuni dei più abili guerriglieri e dei più alti comandanti militari che hanno guidato la guerra del Califfato contro “gli infedeli”, come il georgiano Abu Omar Al Shishani, dirigente ed Emiro dell’ISIS in Siria, dichiarato morto in battaglia lo scorso luglio. Ma il Caucaso ha dato numerosi combattenti anche alle fazioni di Al Qaeda in Siria, oggi riunite sotto le bandiere di Jaish Fateh Al Sham.

Dunque, mentre è in corso a livello mondiale – non solo in Siria e Iraq – una sfida tra Califfato e Al Qaeda per primeggiare nel Jihad globale, i suoi effetti e riverberi raggiungono le strade di Londra come la Metropolitana di San Pietroburgo, in una spirale terroristica che non accenna ad arrestarsi.

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