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Sfida ai conti di Bruxelles

Sfida ai conti di Bruxelles

L’Europa già richiama il governo che verrà alle regole della sostenibilità finanziaria. Ma la presidente del Consiglio in pectore vuole rompere con un passato di interventi «keynesiani»: da una parte forte controllo delle uscite, dall’altra stop al circolo vizioso di «tassare per fare più spesa». Al contempo, intende promuovere un rilancio radicale delle esportazioni. Il confronto con la Commissione è all’inizio.


Da Bruxelles hanno già cominciato a mettere le mani avanti: «Se non fate in tempo per il 15 ottobre, che sia l’esecutivo in carica per gli affari correnti a mandarci il suo progetto di bilancio; ed entro fine novembre il nuovo gabinetto ci faccia sapere come intende rendere sostenibili i conti». Perché le regole dell’Unione europea si rispettano. Dipende molto da chi le deve rispettare, ma questo è un altro paio di maniche.

Sostanzialmente la Ue chiede a Giorgia Meloni una fidejussione firmata da Mario Draghi. La presidente del Consiglio in pectore sa che non potrà contare sulla benevolenza della Commissione. Ha un problema di tempi stretti e di soldi che non ci sono. Draghi si rifiuta di scrivere la manovra, ma pare prodigo di buoni consigli ora che non può più dare il cattivo esempio; e del resto la leader di Fratelli d’Italia avrebbe diritto a una «due diligence», l’analisi approfondita per sapere come è stato gestito davvero il pubblico denaro dal «governo dei migliori» che ha lasciato le casse vuote. Lei e il governo che verrà devono trovare 40 miliardi, secondo i calcoli della Cgia di Mestre, solo per fare fronte agli impegni che eredita.

La lista della spesa tra l’altro prevede: 5 miliardi di euro per frenare il caro energia fino a marzo, come stabilito dal decreto Aiuti ter; 8,5 miliardi per mettere le pensioni al passo con l’inflazione; altri 5 miliardi se li mangia il contratto del pubblico impiego che si sommano ai 4 miliardi di sgravi contributivi per i lavoratori dipendenti. Ci sono poi altri 2 o 3 miliardi di spese indifferibili. Insomma, non c’è spazio per fare altro? Apparentemente no, ma è lì che si apre la trattativa a Bruxelles, soprattutto è lì che il nuovo esecutivo farà il cambio di passo.

Lo schema che ha in testa Meloni è lavorare a tappe forzate in due direzioni: conti pubblici con revisione e abbassamento della pressione fiscale e rilancio economico introducendo altre due variabili; il riferimento teorico non sarà più quello keynesiano del «tassa e spendi», gli sforzi saranno tutti in direzione dello sviluppo aggiustando il Pnrr, il Piano di ripresa e resilienza. È probabile che il ministero dell’Economia venga «spacchettato» in quello delle Finanze che si occupa delle entrate e in quello del Tesoro che si occupa della politica economica con un possibile rafforzamento del Mise, il ministero dello Sviluppo. Il governo che verrà sembra voglia uscire dalla traiettoria della politica economica intesa come ragioneria e fisco. Vuole chiudere col passato molto socialdemocratico dei bonus, del welfare à la carte finanziato con un incremento continuo di pressione fiscale (giova ricordare che con Draghi a Palazzo Chigi si è toccato l’apice del 43,5 per cento) e ridare slancio all’economia reale. Per soddisfare la logica dei «cento giorni» probabilmente si prenderanno tre provvedimenti: sostegno sulle bollette, taglio dell’Iva sui beni di prima necessità, incentivo contributivo alle assunzioni. Per il resto occorre, però, dispiegare una compiuta politica economica.

Ben che vada il nuovo esecutivo si trova a fare i conti con una drastica riduzione del Pil, il che costringe a rivedere tutte le tabelle del peso del deficit e del debito con la indifferibile necessità di liberare le imprese da eccessive zavorre di costi e aiutare le famiglie a sostenere la domanda. Il ministro economico uscente, Daniele Franco, nella Nadef – la Nota di aggiornamento alla Legge di bilancio – ha tentato di ammortizzare l’impatto: prevede una crescita ancora attorno allo 0,6 per cento anche per evitare di smentire troppo sé stesso (lo scorso anno aveva scritto che nel 2023 la crescita sarebbe stata del 2,4 per cento) e un rapporto deficit Pil attorno al 5.

Gli osservatori internazionali dicono che andrà peggio: l’Ocse ci accredita uno 0,4 per cento di crescita incamerando però uno 3,4 a fine anno che ci riporterebbe sopra ai livelli del 2019. Standard and Poor’s, che per ora non si agita troppo con l’arrivo di Meloni, ci vede in lieve recessione il prossimo anno (meno 0,1 del Pil) ma prevede che finiremo il 2022 col debito ancora sopportabile (138 per cento del Pil); e pare propensa a scommettere che se il nuovo governo rispetterà e metterà a terra il Pnrr nel 2024 potremmo tornare a una crescita dell’1,5. Del resto, tutto intorno, le previsioni sono pessime. La più fosca ed esplicita l’ha fatta la direttrice generale del Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio, Ngozi-Okono-Iweala: «Siamo stretti da crisi multiple, stiamo andando verso una recessione globale». Perciò addio dottrina «tassa e spendi» e nuova linea: rigore nelle uscite con tagli mirati, sviluppo e fisco morbido. Utilizzando il Pnrr come volàno – ma uscendo dai progetti ingessati secondo la logica eurocratica – per investire i soldi dove servono davvero tenendo conto dell’inflazione, costo di materie prime e crisi energetica.

Da qui la necessità di siglare una tregua con Bruxelles e individuare un profilo di ministri economici capaci di interpretare questa linea. Si immagina perciò l’arrivo dalla Banca centrale europea di Fabio Panetta che dovrebbe occuparsi della Finanza e il recupero di Domenico Siniscalco, già ministro economico con Berlusconi. E poi un terzo ministro. È una voce che circola molto sommessamente; il ritorno di Mario Baldassarri, forse il più attento tra gli studiosi all’economia reale e capace anche di soddisfare quella spinta all’economia sociale che connota l’iniziativa di Fratelli d’Italia. Con questa squadra«a tre punte» Meloni andrebbe a giocarsi il derby a Bruxelles, sapendo che la partita è fuori casa e però bisogna vincerla se si vuole impostare una diversa politica economica.

Paolo Gentiloni, commissario all’Economia, diretta emanazione di un Pd che cova vendetta, dice di essere «piuttosto fiducioso che la collaborazione con il nuovo governo sarà basata su posizioni serie come sempre». La presidente della Bce Christine Lagarde, che dichiara di «amare gli italiani», è assai tiepida. Tira diritto, dopo essere partita con colpevole ritardo sugli aumenti dei tassi, e del famoso scudo anti-spread ne parla in maniera vaga. Insiste: «Alzeremo i tassi finché serve a combattere l’inflazione». Da Berlino il cancelliere Olaf Scholz ha fatto sapere che di aiutare l’Italia a trazione meloniana non se ne parla. Anche perché la Germania, che teme fortemente di entrare in crisi – per fare un esempio, la Volkswagen ha annunciato di essere pronta a spostare le produzioni se perdura la crisi del gas – è in allarme per l’annunciato proposito del nuovo governo di proteggere e rilanciare il made in Italy in vista di un’offensiva globale di esportazione. Per contro, il capoeconomista delle Bce Philip R. Lane sostiene: «Di fronte al caro energia la grande domanda è se una parte del supporto alle classi più deboli non possa essere finanziata attraverso aumenti della tassazione per i più ricchi». Dunque, se l’Italia pensa di togliere pressione fiscale, l’Europa immagina di andare in direzione contraria. E poi c’è Ursula von der Leyen che ha già dichiarato di avere gli strumenti necessari per ridurre a miti consigli la destra italiana. L’Europa però non se la passa benissimo e questo potrebbe cambiare un po’ la geometria del campo di confronto.

Sul «price cap», il tetto al prezzo del gas, siamo lontanissimi da qualsiasi intesa; il voto in Italia, preceduto da quello in Svezia, attesta come questa Commissione non stia simpatica a molti europei. Meloni è a capo dei conservatori e la baronessa Von der Leyen deve guardarsi dalle larghe intese con Polonia, Svezia, Ungheria che potrebbero mettere in fibrillazione i palazzi dell’eurocrazia. Sistemata la partita europea, il governo ha una rotta abbastanza precisa in economia. Ovvero mandare in soffitta tutte le teorie di John Maynard Keynes basate su spesa pubblica e inasprimento fiscale. Il riferimento teorico del centrodestra è piuttosto Ludwig von Mises e la scuola austriaca, che molto si applicò allo studio dell’inflazione sostenendo che i prezzi sono il regolatore generale e il libero mercato è ben superiore alla programmazione statale. Lo si legge tra le righe di un programma che punta sul made in Italy, sul rilancio dell’impresa, sul contratto di apprendistato e l’istruzione tecnica, che vuole sostenere pensioni e spesa sociale ma togliendo bonus e reddito di cittadinanza, che rilancia la «flat tax» all’inizio sui redditi incrementali, prevedendo in seguito, una sua estensione.

Sul fisco c’è l’idea di arrivare sia alla pace fiscale che al riordino complessivo, come a quello degli incentivi alle imprese premiando chi offre lavoro. È una sfida urgente. Le ultime stime dicono che le famiglie quest’anno sosterranno oltre 5 mila euro di costi in più tra energia e inflazione; ci sono interi comparti industriali – dall’acciaio alla carta, dalla ceramica, al vetro e all’agroalimentare – che rischiano di fermare la produzione; c’è il commercio in crisi nera dove si prevede che almeno 120 mila aziende spariranno; c’è l’allarme rosso di Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, che vede un quinto delle imprese italiane costrette a chiudere. Peccato però che Bruxelles abbia fretta solo di guardare i nostri conti. È un modo non troppo originale per dare il benvenuto a Giorgia Meloni.

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