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Meloni: «Se supero Fini, missione compiuta»

Meloni: «Se supero Fini, missione compiuta»

  • Intervista a Giorgia Meloni
  • Chi sostiene la regina del centrodestra


I rapporti di forza con gli alleati, le telefonate con Giuseppe Conte, gli sgambetti dei Cinque stelle. Poi il duello con Matteo Salvini per la premiership, la cortigianeria degli ultimi arrivati, gli insulti sessisti e le avversarie politiche che non tendono la mano. La leader di Fratelli d’Italia è pronta al salto nel futuro, ma con un occhio al passato, cioè ad An.




Tra piante di salvia e rosmarino, in un angolo bucolico vicino al Raccordo anulare, c’è il vero quartier generale di Giorgia Meloni. Nel senso che qui, oltre a coltivare spezie, ricarica le forze, accudisce la figlia Ginevra, rincorre la gatta Micia che vorrebbe uccidere tutti i gechi. In questa casa col giardino, il tempo vale oro perché è sempre troppo poco, ma è una postazione di pace da dove l’ex «leaderina» di Fratelli d’Italia riflette sul mondo che verrà. I sondaggi la esaltano e ora serve lucidità.
Una qualità felina, dice lei, mentre accarezza Micia e Martino, lo Scottish grigio. «I gatti sono orgogliosi e sicuri di sé, mi ci rivedo molto».

Ci racconti una riunione di routine con Matteo Salvini e Silvio Berlusconi o, ultimamente, con Antonio Tajani.
«Con Berlusconi si stava a tavola, come tutti sanno lui è un grande ospite e c’era un clima conviviale. Le riunioni di adesso nell’ufficio di Salvini sono più sbrigative, da ufficio. Ne facciamo tante, ma brevi. Dopo due ore non ce la facciamo più».

Com’è riuscita a convincere i suoi alleati a non partecipare agli Stati Generali di Giuseppe Conte: ha alzato la voce o ha alzato la posta?
«Non ho alzato niente, ma solo condiviso una riflessione. Era sbagliato fare passerelle in villa in questo momento e c’era anche un errore nel merito: se vogliono parlare con le opposizioni devono dirci come stanno spendendo gli 80 miliardi di euro avuti grazie a noi che abbiamo votato gli scostamenti di bilancio. Berlusconi, che è uomo di comunicazione, ha convenuto su quanto fosse distonico fare 10 giorni a Villa Pamphilj. Sembravano gli Stati Generali del re di Francia».

Ha detto no ai colloqui separati del centrodestra con il presidente del Consiglio. Ma è molto evidente che il centrodestra non sia unito in questo momento. Raccontano di tensioni altissime nella scelta dei candidati regionali e di quelli a sindaco. Poi, sul Mes, non c’è un punto d’incontro.
«Abbiamo discusso, è vero, sui candidati presidenti, ma alla fine andiamo con un candidato solo. Nel centrosinistra vanno con tre, quattro candidati quando va bene. Il Mes sicuramente è un argomento che ci divide, ma è l’unico. Ho concordato con gli altri l’idea di andare insieme perché è il gioco dei nostri avversari battere sulla psicologia e l’ego di ciascuno di noi. Tutti i giorni sento
che Meloni schiaccia Salvini come un granchio, che Salvini insulta Meloni, che Berlusconi è più intelligente di Salvini e Meloni messi insieme… Ragazzi, il fatto è semplice: compatti facciamo paura e gli italiani ci vogliono al governo insieme».

Il Mes non è l’unico argomento che vi divide. Lei è disponibile, come chiedono i leghisti, a firmare l’accordo per l’autonomia del Veneto?
«Ho già dato la mia disponibilità, l’autonomia era inserita nel programma comune per le Politiche del 2008 e a livello regionale i nostri esponenti hanno sostenuto il referendum. Abbiamo chiesto e ottenuto dalla Lega che non ci fossero ambiguità sulla difesa dell’unità nazionale e affiancato all’autonomia la battaglia per il presidenzialismo, condizione fondamentale per un governo centrale autorevole ed efficiente».

Ma il duello tra lei e Salvini, alimentato dai sondaggi, è iniziato da molti mesi. E lei ripete che si candiderà a premier il leader più votato.
«La coalizione intera indicherà come premier il leader più votato perché è sempre stato così nel centrodestra. Sono stata la prima, dopo il risultato del 4 marzo 2018, a chiedere che Salvini fosse premier. Lo stesso principio vale per tutti».

I rapporti di forza saranno comunque cambiati tra di voi. Come? È più assertiva, guardinga o semplicemente più sicura quando ci sono questioni importanti da affrontare insieme?
«Sono consapevole che il peso sia cambiato, ma non mi interessa farlo pesare. Se fossi stata uno dei miei alleati, siccome gli accordi sui candidati alle Regionali sono stati fatti quando Fratelli d’Italia era al 6% e oggi è stimata al 14, avrei detto: voglio la Puglia, le Marche, ma anche la Campania. Oppure la Toscana perché, signori cari, la situazione adesso è questa. Non l’ho fatto».

Allora perché tutti dicono che Salvini ha ceduto sulle candidature?
«Non l’ho capito nemmeno io, forse perché aveva detto che i nomi che avevamo scelto noi non andavano più bene, ma poi sono stati riconfermati ed è stato giusto così. Li abbiamo sondati, visti, rivisti, rivoltati come calzini e risultavano sempre i candidati migliori. E comunque io non ero disponibile a fare un passo indietro. In questi otto anni di vita del partito, solo una volta abbiamo espresso un candidato presidente di Regione».

Se le chiedono di Berlusconi, dice che si sente legata a lui da un rapporto personale. Ma si fida o non si fida?
«Mi fido di me stessa, in politica devi fare così. Quando io dico una cosa è quella, ma riguardo agli altri, non metto mai la mano sul fuoco. Berlusconi? Ti ascolta, con lui è molto facile riuscire a ragionare e se è pienamente convinto di una cosa, ti puoi fidare. Anche perché sa che con me non c’è la sorpresa, il doppio gioco».

Perché alcuni, nel centrodestra, sostengono che lei sia stata ingrata con il leader di Forza Italia?
«Perché si parte dal presupposto che le donne devono essere sempre grate a un uomo per quello che hanno. Non
si accetta che quello che abbiamo ce lo siamo guadagnato. Ma io a Berlusconi non devo nulla, se non il rispetto. Quando l’ho conosciuto ero già vicepresidente della Camera, quando sono diventata ministro nel suo governo, fu An a indicarmi. Quando me ne andai dal Pdl per fondare FdI lo feci senza chiedere nulla. L’unica volta che Berlusconi avrebbe potuto fare la differenza nel mio percorso politico fu quando mi candidai a sindaco di Roma, ma mi preferì uno di sinistra».

Lei attacca Conte ogni giorno, lo ha sfidato alla Camera con durissimi interventi anche durante il lockdown. Ci sono stati chiarimenti dietro le quinte, momenti in cui ha potuto apprezzarne almeno le doti di garbo e simpatia?
«Ci siamo sentiti al telefono diverse volte, l’ultima quando mi ha invitato agli Stati Generali, una lunga telefonata in cui voleva convincermi. È una persona garbata, ma molto scaltra. Io penso che lui guardi molto più al suo interesse personale che a quello della nazione. Non mi convince come si comporta e che faccia sempre finta di non sapere che cosa fanno le persone e i partiti a lui più vicini. Se vieni in Parlamento a fare un appello di collaborazione e dopo di te il rappresentante del partito che ti ha indicato premier comincia a insultare tutti e tu non ne prendi le distanze, vuol dire che c’è un gioco preordinato».

Le ha chiesto scusa dopo il famoso attacco del 12 aprile in cui la accusò di avere mentito sull’attivazione del Mes?
«Figuriamoci, ma non ho mai pensato che lo avrebbe fatto. Ha detto cose false perché le voleva dire. Quella conferenza stampa era stata organizzata solo per attaccare noi. Fatta con cognizione di causa, è il classico metodo dei Cinque stelle. Come il 2 giugno, quando abbiamo chiesto di portare una corona di alloro all’Altare della Patria per omaggiare il milite ignoto, e i giornali hanno saputo prima di noi da Palazzo Chigi che era stata bocciata la richiesta. Il Fatto quotidiano e La Repubblica scrissero che volevamo oscurare Sergio Mattarella e per questo c’era stato il no. Ho mandato un sms molto piccato a Conte e lui, come al solito, ha detto che loro non c’entravano niente e che era difficile verificare chi fosse stato a dare la notizia…»

Esiste qualcuno, all’interno del Movimento Cinque stelle, di cui ha stima a livello politico?
«Gianluigi Paragone… ah, se ne è andato. C’è stato qualche deputato che sul Mes ha votato il mio ordine del giorno contro il parere del gruppo. Rispetto sempre chi sfida i diktat per rimanere coerente».

Sui navigator fortemente voluti da Luigi Di Maio i dati sono implacabili e lei non fa che ricordarlo: tanta spesa e poca resa. Non sono serviti a procurare lavoro a chi percepisce il reddito di cittadinanza. Qual è stato il suo primo approccio con l’attuale ministro degli Esteri?
«Di Maio è una persona molto carina e cordiale, alla mano rispetto alla media dei Cinque stelle. Forse il più normale nei rapporti personali essendo dotato di un minimo di educazione istituzionale. Ci ho parlato di rado. Però io non sarei mai stata in grado di fare le capriole che ha fatto lui nella sua vita. Per quelle gli dovrebbero dare l’oro alle Olimpiadi».

Alcune, lui e Salvini, le hanno fatte insieme.
«Vero, in politica le fanno tutti, ma almeno Salvini col Pd non ci è andato. Quando voteranno il Mes, perché stia certa che lo voteranno, vorrà dire per i Cinque stelle aver tradito il 100% delle loro promesse. Un record anche per l’Italia».

Lei dice che la maggioranza non ha più i numeri in Senato e che in autunno cadrà il governo. Pensa che questa volta Sergio Mattarella vi ascolterà sulla corsa al voto?
«Il presidente della Repubblica ha mandato a dire ai partiti che se fosse caduto il governo per lui ci sarebbero state solo le elezioni e io mi fido».

Pensa davvero che con la crisi economica, lo scongiurato ritorno del virus e la legge di Bilancio da approvare si possa bloccare per mesi il Parlamento? Votare entro l’anno sarebbe impraticabile a meno di farlo entro Natale e a primavera mancherà poco all’inizio del semestre bianco. In sintesi: non crede che chiedere le elezioni anticipate sia solo un modo per crescere nei sondaggi? «È la ragione per cui sto chiedendo l’election day. Se si può votare il 20 settembre per le Regionali, si può votare anche per le Politiche. Non si tiene il Parlamento bloccato per mesi andando a votare, si tiene bloccato per anni non andandoci. Certo, ci credo poco perché siamo in una democrazia malata dove la poltrona vale più del diritto di voto, ma non mi piego alla degenerazione. Ci dicono che col Covid si può votare per le Regionali, ma non per le Politiche. Cos’è, il virus attacca solo gli elettori del Parlamento?»

Le piaccia o no, lei ormai è una donna di potere. Ma quante volte, per aver fatto valere le sue ragioni, le hanno dato dell’aggressiva, prevenuta o addirittura dell’isterica?
Aggressiva sempre, ma io devo alzare la voce solo per poter esprimere il mio punto di vista. Loro partono dal presupposto che tu non debba parlare, ma io questa cosa l’ho imparata dalla sinistra alle assemblee studentesche. Tu arrivavi e loro t’iscrivevano a parlare, ma c’era sempre un altro prima di te. L’assemblea finiva e tu non avevi preso la parola. Mi hanno fregato la prima volta, ma la seconda no, sono salita sul palco e mi sono fatta sentire. Poi, per tutta la vita me la sono dovuta cavare così. Combattendo contro il principio: ti mettiamo seduta per far vedere che siamo democratici, ma non puoi parlare».

Questo perché donna o perché di destra?
«Questo perché sei di destra, poi perché, se sei donna, pensano che sia più facile farlo. È una vita che devo lottare per poter dire il mio punto di vista e se non mi faccio zittire mi definiscono aggressiva perché sono costretta ad alzare la voce. Ci sono una serie
di conduttori televisivi che fanno questo giochetto, anche lì mi freghi la prima volta, ma la seconda no. Gli altri ospiti ti insultano, arriva il tuo turno e il conduttore dice: si sbrighi, non c’è più tempo. Poi ricomincia il giro. Eh, no».

Una leader agli antipodi del #MeToo, delle quote rosa, del femminismo a oltranza. Ma come si fa a non essere femministe quando per farsi valere si è costretti a fare il doppio della fatica?
«Come tutti sanno, ho fatto mia una massima della femminista Charlotte Whitton: “Una donna deve fare qualunque cosa due volte meglio di un uomo per essere giudicata brava la metà. Per fortuna non è difficile”».

Le fa piacere quando la dipingono come «una con le palle»?
«Non mi dispiace. Si riconosce che sono una persona coraggiosa, per me dote fondamentale visto che detesto le persone vigliacche. Per coraggio intendo che cosa sei disposto a sacrificare per non abbassare la testa, quella è la forza. L’ho detto quando ci ha lasciato il nostro senatore Stefano Bertacco. Mi ha insegnato, con l’esempio, che la vera forza non ha bisogno di essere sguaiata. Ti guarda negli occhi, ti prende per mano, ti guida».

E la forza che voce ha?
«Piena, potente, mai stridula».

Le è mai successo di non sentire la solidarietà delle colleghe parlamentari in seguito a un attacco sessista?
«Sempre. Io di episodi ce ne ho centomila da raccontare. Due settimane fa a Ostia hanno scritto sul muro “Meloni troia fascista” e non c’è stato un solo o una sola collega del Pd che abbia condannato. Il giorno dopo è stato insultato il dem Emanuele Fiano e io ho fatto un tweet in sua difesa. Quando mi ha chiamato per ringraziarmi gli ho detto: mi colpisce che ti stupisca. Poi, scusi, non si può criticare Teresa Bellanova perché faceva la bracciante. Io facevo la cameriera e sono vent’anni che mi deridono: ah, tu al massimo puoi portà il caffè. Se la Bellanova ha fatto dei lavori semplici è bravissima, se li ha fatti la Meloni è una poveraccia».

Tra le avversarie in Parlamento ce ne sono alcune che apprezza in modo particolare?
«Mmh… Roberta Pinotti. Anche se non ho condiviso molte sue scelte, ha fatto il ministro della Difesa con dignità e non posso dire nulla di male. Anche perché dopo c’è stata Elisabetta Trenta e allora… la Pinotti era un luminare».

Come governa la Camera la vicepresidente Mara Carfagna? Al suo posto che cosa avrebbe fatto lei con Vittorio Sgarbi?
«Non c’ero e non ho sentito il discorso di Sgarbi, ma so che presiedere Montecitorio è un ruolo difficilissimo. L’ho fatto anche io molto tempo fa, a 29 anni. Mara è sicuramente una che si fa rispettare. Forse fin troppo, a volte sarei meno interventista».

Ci racconta un episodio della sua vita politica, presente o passata, in cui si è sentita ingiustamente prevaricata?
«Mai sentita prevaricata. Battute da caserma le ho subite, ma quando sono arrivate da qualcuno con cui non avevo confidenza l’ho rimesso a posto: non ti permettere mai più ché ti tiro una sediata. Con chi è successo non lo dico».

La sua corsa sembra inarrestabile, i sondaggi sono sempre più positivi e i numeri si avvicinano a quelli che aveva Gianfranco Fini, con An, nel 1996: 15,6%. Che effetto le fanno queste cifre e questo paragone?
«Scherzando dico sempre ai deputati di Fratelli d’Italia che supero An e mi dimetto. Il mio grande obiettivo era portare la destra italiana più in alto di sempre. Qualcuno mi ha detto: quando arrivi al 16, vendi tutto. Ho combattuto tutta la vita per questo, per me è come se la missione fosse compiuta. Ma non lo è, intanto perché i voti vanno presi nelle urne, poi perché devi trasformare le idee in mattoni e questo si fa al governo».

Prima delle Europee diceva: o va o mollo.
«Ho pensato seriamente di mollare se non avessi fatto il 4%. C’è sempre il fatto che un partito piccolo l’elettore non lo vota perché ha paura di buttare il voto, ma io ripetevo a tutti: FdI è un partito piccolo perché tu non lo voti. Però chi mi conosce bene sa che io vivo tutto con ansia, ogni volta che vedo un sondaggio che sale, mi sento addosso il peso delle singole scelte».

Lei, Salvini e Berlusconi siete alleati in Italia, ma in Europa andate ognuno per conto proprio. L’Europa non è solo il Mes…
«Il Mes è una trappola e nessuno mi convincerà del contrario. Ma è l’elemento più divisivo di tutti. In Europa le nostre diverse posizioni potrebbero anche rappresentare un elemento di forza perché, in caso di governo, ci consentirebbero di lavorare per cercare convergenze tra le diverse famiglie in difesa degli interessi dell’Italia».

Qual è il perimetro della sua destra gollista, una destra conservatrice moderna, e in che cosa si distingue dalla destra sovranista di Salvini?
«Nel panorama politico nazionale è Fratelli d’Italia a rappresentare la destra, che da sempre tiene insieme differenti sensibilità. È gollista perché crede nella democrazia diretta e nella politica capace di decidere, è conservatrice perché difende valori tradizionali
come Dio, patria e famiglia, è sovranista perché mette l’interesse nazionale davanti a tutto, è sociale perché capace di parlare a tutti, a partire dai meno garantiti, è produttivista perché valorizza l’Italia che lavora, è moderna perché ha radici profonde, ma non ha scheletri nell’armadio».

A febbraio fu invitata al National prayer breakfast e disse che Donald Trump è un modello. È noto che gli Usa la preferiscono come interlocutrice in Italia rispetto a Salvini, del quale non si fidano per i rapporti con la Russia. Considera tuttora Trump un modello pur essendo accusato anche da suoi ex collaboratori di voler spaccare la nazione?
«Trump è oggetto di una campagna di odio da parte di nemici esterni e interni. E già questo me lo rende simpatico
e mi fa pensare che abbia rotto le uova nel paniere a tanti sacerdoti del politicamente corretto. Mi piace il Trump che ferma l’immigrazione incontrollata e difende i valori cristiani, la sua ricetta economica fatta di taglio alle tasse e rilancio degli investimenti pubblici, la sua idea di riequilibrare un mercato globale in cui la Cina e la Germania spadroneggiano. Chiaramente lui lo fa con la prospettiva di un patriota americano mentre io sono una patriota italiana e difendo l’interesse italiano. Non ho mai esitato, per esempio, nel dire che i dazi americani sui nostri prodotti agroalimentari ci danneggiano. Tutti sanno, Trump compreso, che possiamo essere amici leali di molti, ma servi di nessuno».

Lei si arrabbia quando le dicono che frequentando i salotti buoni, anche quelli televisivi, rischia di fare lo stesso percorso che fece Gianfranco Fini per farsi amare a sinistra, ma per poi perdere i voti a destra.
«Io non ho complessi e, quando da sinistra mi fanno complimenti, mi chiedo se ho sbagliato qualcosa, anche se so che su alcuni temi debba esserci un terreno comune. Mi fa tenerezza questa sinistra che vuole spiegarci anche come dovrebbe essere la destra e che ovviamente spera che la destra non prenda un voto. Ho visto da vicino il gioco che hanno fatto con Fini. Non ero d’accordo con lui quando si prestava, figuriamoci se mi presto io. Poi, insomma, a quelli che mi vorrebbero ammiccante con la sinistra faccio notare che FdI non ha mai fatto governi né con i Pd né con i Cinque stelle».

Prima era solo una populista, nei casi migliori, ma ora che è in alto tutti la vogliono. Ha notato un aumento del tasso di cortigianeria attorno a sé?
«Oh, certo, a tutti i livelli. Scopri tante persone che avevano il nonno con la tessera del Msi, ma sono le stesse col nonno tesserato Dc o partigiano, dipende da chi incontrano in quel momento. Io però riconosco gli amici veri. Il che non significa non saper essere inclusivi con chi viene magari da un altro percorso, come dimostra la candidatura in Puglia di Raffaele Fitto (che era di Forza Italia, ndr)».

Come immagina l’Italia tra un anno?
«Con un nuovo governo scelto dai cittadini. Se così non fosse, la immagino in grande difficolta, perché il modo in cui si stanno spendendo 80 miliardi di nuovo debito che graverà sui nostri figli in marchette, bonus e consulenze dimostra che questo
è un governo di irresponsabili».




Chi sostiene la regina del centrodestra

«Io mi sono rotta leggermente le palle. Dietro una grande donna c’è sempre chi o che cosa? Solo se stessa, temo». La frase che Giorgia Meloni vorrebbe sottolineare e risottolineare con le sue penne colorate, le stesse usate su fogli a quadretti per metabolizzare dossier e suggerimenti, è quella che la grande Mina sibilò in una delle rarissime interviste concesse. Così, anche la leader di Fratelli d’Italia ama ricordare: «Le decisioni importanti le ho sempre prese da sola, mettendomi nei panni della ragazzina di 16 anni che sono stata». Insomma, dietro Giorgia c’è solo Giorgia. Passata dalle esili percentuali di poco più di un anno fa al 15% degli ultimi sondaggi. E le prossime Regionali di settembre sembrano destinate a conclamare le sue irrefrenabili ambizioni.

La chiamavano, sprezzanti, «regina della Garbatella». Lei, adesso, vuole diventare regina nel centrodestra. Ed è vero: alla fine, si fa sempre di testa sua. Negli ultimi tempi sono però aumentati i contributi alla causa, sovranista e conservatrice, di Fratelli d’Italia. A partire, ovviamente, dall’economia. Crisi, debito, Mes.

Mai momento fu più tribolato. E mai come oggi servono i consigli di Giulio Tremonti, ascoltassimo ex ministro delle Finanze di era berlusconiana, su gabole e gabelle che nasconderebbe il salvifico Fondo salva Stati perorato dall’Unione europea. Da Domenico Lombardi, ex Fmi e Bankitalia, è stata invece mutuata la proposta dei Diritti speciali di prelievo. Ovvero, quelle riserve con cui il Fondo monetario internazionale potrebbe generare liquidità, «senza incorrere nella Troika». Idea sostenuta anche dal Financial Times, non proprio un covo di rivoluzionari.

Mentre su tasse e finanza l’oracolo resta poi il fiscalista Maurizio Leo, ex parlamentare del Pdl. È lui l’inventore della flat tax incrementale lanciata un anno fa. Prevede di pagare il 15% di imposte sull’aumento del reddito rispetto all’anno precedente. Un incentivo, spiegano, per far emergere i redditi e aumentare i fatturati. Proposta meno rutilante di quella leghista, che prevede un’imposta piatta per tutti. Ma che, ad alcuni, comincia a sembrare più realistica.

Non a caso, il mondo imprenditoriale s’è avvicinato a Fratelli d’Italia. Come il popolo delle partite Iva guidate da Lino Ricchiuti, diventato vice responsabile del dipartimento Attività produttive del partito. Poi tante piccole aziende, deluse dal reddito di cittadinanza varato in epoca giallorossa. E il settore turistico, occupato quasi militarmente da quattro assessori regionali al ramo: in Lombardia, Liguria, Calabria e Sicilia.

Anche l’attenzione alle associazioni di categoria è diventata scientifica e trasversale. Agricoltura, artigianato, commercio, industria. Meloni, ormai, non salta una kermesse. E continua a stringere salde relazioni. In particolare con Marina Calderone, presidente dell’Ordine dei consulenti del lavoro. O Massimiliano Giansanti, alla guida di Confagricoltura. E Maurizio Casasco, al timone di Confapi, la Confederazione italiana della piccola e media industria.

«Noi non abbiamo problemi a definirci un partito produttivista, perché la crescita la fanno le imprese» spiegava Meloni alla vigilia delle scorse Europee. Di sicuro, il buon risultato in quella tornata ha consolidato i rapporti e segnato un aggiustamento ideologico. Meno sovranisti e più conservatori, non a caso il gruppo politico parlamentare scelto a Bruxelles. Una semplificazione che FdI rifiuta. Anche perché in Italia il conservatorismo, a differenza di Usa o Inghilterra, ricorda lo stantio odore di sagrestie e i circoli di imbalsamati settantenni. Ma sembra, comunque, una collocazione più rassicurante per il partito del Pil, globale e interconnesso.

«Abbiamo sempre la stessa impostazione» ragiona la leader di FdI. «Non c’è stata un’evoluzione. Sono gli altri che ora ci vedono con occhi diversi». A riprova dell’intesa, un aneddoto: lo scorso febbraio 2.000 imprenditori paganti partecipano alla cena organizzata dalla parlamentare Daniela Santanché in onore della capopartito: a Busto Arsizio, nell’alacre varesotto leghista.

Ma non c’è solo l’economia. Tra i compulsati saggi ci sono anche due magistrati con un illustre passato nel centrodestra. L’esperto di politica internazionale è Franco Frattini, ex ministro degli Esteri e adesso presidente di sezione del Consiglio di Stato. Sulla giustizia resta invece strategico il contributo di Alfredo Mantovano, ex sottosegretario all’Interno e ora consigliere in Corte di cassazione.

Negli ultimi tempi, s’è poi sempre più intensificato il dialogo sui temi etici con Massimo Gandolfini, leader del Family day. Proprio da quel palco, non a caso, nel 2016 Meloni diede la notizia della sua maternità. E pure il fortunato remix che ha spopolato sul web trasuda identità di posizioni con il movimento cattolico: «Sono Giorgia, sono una madre, sono cristiana». Ossia, la rivisitazione in chiave pop e moderna del motto che ha indirizzato per decenni la destra italiana: «Dio, patria e famiglia».

Tra gli intellettuali di riferimento c’è invece Pietrangelo Buttafuoco, giornalista e scrittore. E un grande vecchio come il sociologo Francesco Alberoni, candidato da FdI alle scorse Europee. Apprezzatissimo anche l’illustre collega e politologo Luca Ricolfi. Una stima ricambiata: «Meloni se fosse uomo, sarebbe già leader del centrodestra» assicura il responsabile scientifico della Fondazione David Hume, da anni compulsato oracolo dai giornali. Eppure, il professore sembrerebbe lontano dall’universo sovranista.

Non c’è da stupirsi. Fratelli d’Italia si prepara al cambio di percezione: da partito degli ex An a nuovo Pdl depurato dal berlusconismo. La Puglia sarà la prova del nove. Meloni s’è trionfalmente impuntata sulla candidatura di Raffaele Fitto, reclutato alla vigilia delle scorse Europee e poi diventato a Bruxelles copresidente del gruppo dei Conservatori e riformisti. In caso di vittoria, dunque, un fiero erede della tradizione democristiana e forzista diventerebbe il governatore simbolo del partito. Conclamata dimostrazione, a uso di ex azzurri e liberali, che FdI è casa loro.

Ottenere la candidatura di Fitto non è stato però facile. E ha incrinato i rapporti con Matteo Salvini. Tra i due c’è la distanza caratteriale, certo. Lei è metodica, lui fumantino. Giorgia chiama, Matteo non risponde. Lei sbrocca, lui alza le spalle. Ma sono stati soprattutto tre gli attriti degli ultimi tempi.

Il primo è di un’estate fa. Il leader leghista prima apre la crisi agostana, ma poi cerca di ricomporre con Luigi Di Maio sorvolando sulle storiche alleanze. Il secondo si consuma lo scorso autunno, alla manifestazione del centrodestra in piazza San Giovanni, sui simboli da esporre: partitici o tricolore? Il terzo è delle ultime settimane. E riguarda l’imminente tornata settembrina. Salvini mette in discussione alcune scelte, specie quella di Fitto in Puglia: «Bisogna rinnovare». Il confronto si inasprisce. «I patti si rispettano» intima però Meloni al tavolo delle trattative, spalleggiata da Ignazio La Russa. Ovvero, l’altro fondatore di FdI assieme al liberale Guido Crosetto. Inevitabili scaramucce tra alleati, insomma. E comunque quisquilie se confrontate con la litigiosità del brancaleonico governo guidato da Giuseppe Conte.

Così, non devono stupire nemmeno i distinguo in Europa. Il leader della Lega vanta l’asse con il capo del Front national, Marine Le Pen. Meloni marca distanza invitando tra i tricolori sventolanti di Atreju il primo ministro ungherese, Victor Orbán. E, pure in patria, Fratelli d’Italia cerca di dare un’immagine più istituzionale e dialogante. «Prima della fazione viene la nazione» ripete Meloni gonfia di patriottismo.

E i soliti sondaggi confermano: oggi sarebbe lei il leader politico con il maggior gradimento tra gli elettori. Perché è coerente, assicurano gli estimatori. Ed è sempre rimasta all’opposizione. Una posizione che FdI coltiva fin dalla sua fondazione, nel 2014. Ora, il nuovo traguardo è segnato: superare il Movimento Cinque stelle. L’obiettivo, da lunare, sembra imminente. A partire dalla Puglia, dove i grillini alle scorse Europee hanno raggiunto un ancora iperbolico 26%. E poi, l’approdo definitivo: competere con il Pd. Gli eredi missini contro i nipotini del Pci. Ritorno al futuro.

Non sarà facile. Come diceva l’ex premier francese, Léon Blum: «Il potere è tentatore, ma solo l’opposizione è gratificante». Soprattutto elettoralmente. Per questo la leader di Fratelli d’Italia non ha fretta. Invoca elezioni anticipate, ma tiene bene a mente il motto riportato da Tito Livio nella Storia di Roma: «Hic manebimus optime». Già, «qui staremo benissimo» disse il centurione al suo vessillifero. E anche per Giorgia, adesso, non c’è posto migliore di questo: la scalcagnata Italia dei giallorossi.

Antonio Rossitto

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