La regista Laura Poitras, già premio Oscar per Citizenfour (documentario su Snowden), racconta il suo nuovo film-crociata Tutta la bellezza e il dolore (Leone d’oro a Venezia). Un «j’accuse» contro la famiglia Sackler, rea di produrre l’ossicodone che tante dipendenze e morti ha causato.
Tutta la bellezza e il dolore, film che ha vinto il Leone d’oro alla recente Mostra del Cinema di Venezia ed è in uscita nelle sale il 12, 13 e 14 febbraio, comincia al Metropolitan Museum of Art di New York. La fotografa Nan Goldin vi si è recata nel 2018 non per esporre i propri lavori ma per inscenare una protesta, insieme a un gruppo di attivisti, contro i Sackler: famiglia tra le più ricche d’America, proprietaria dell’azienda Purdue Pharma e sponsor di molte istituzioni culturali (tra cui il Met, il Louvre e altre, che hanno intitolato a loro anche alcune sale museali).
La regista, Laura Poitras, già premio Oscar per Citizenfour, documentario dedicato allo «spifferatore» di segreti militari Edward Snowden, inizia da qui il suo racconto. Un viaggio in parallelo. Da una parte analizza la lunga battaglia dell’artista per smascherare i Sackler, responsabili con la loro azienda farmaceutica di aver commercializzato per decenni l’ossicodone (Oxycontin), un oppiaceo usato anche in Italia, negandone gli effetti collaterali e il forte rischio di dipendenza. Al punto da aver causato, soprattutto negli Usa, migliaia di morti per overdose. Dall’altra parte fissa lo sguardo sulla vita della Goldin: un’artista segnata in giovane età dal suicidio della sorella, e capace di raccontare attraverso scatti senza censura non solo la propria vita amorosa, ma anche quella di amici e conoscenti, rappresentando la sottocultura newyorkese e ponendo l’attenzione su omosessualità, violenza sulle donne e droghe, prima di sprofondare anche lei nella dipendenza da ossicodone, assunto inizialmente come antidolorifico per una tendinite.
«Il documentario è partito per iniziativa di Nan Goldin» spiega Poitras «che ha cominciato a filmare le azioni di protesta inscenate con il gruppo di attivisti formato nel 2017 e chiamato P.A.I.N. (in inglese l’acronimo significa “dolore”, ndr). A un certo punto sono stata contattata dall’organizzazione per partecipare a quelle manifestazioni e l’ho incontrata: quando mi ha raccontato di una mostra organizzata nel 1989 sull’Aids mi ha colpito che fosse un’artista interessata ad accendere i riflettori sui fallimenti della società. Così ho pensato di unire questi due elementi, la sua arte e l’attivismo. Quando ho iniziato a farle alcune interviste molto intime che riguardavano la sua vita personale ho capito che il film doveva essere un viaggio in prima persona». Sul tema dell’epidemia da farmaci oppioidi erano già usciti altri progetti, come la serie tv di Netflix Painkiller, ispirata al libro Empire of Pain, e quella su Hulu Dopesick, tratta dall’omonimo libro.
«Provo gratitudine per chi li ha realizzati» dice Poitras «perché nella finzione puoi raccontare cose che nel documentario non puoi fare, come mostrare le riunioni dei Sackler, che hanno pagato profumatamente stuoli di avvocati per proteggersi dalle accuse». Naturalmente anche la regista ha dovuto premunirsi per evitare di essere trascinata in giudizio dalla potentissima famiglia che accusa nel film. «Abbiamo lavorato con un pool di legali che ci consigliasse come procedere per non incorrere in una causa multimiliardaria. A un certo punto delle riprese abbiamo scoperto che qualcuno stava pedinando e intimidendo non solo Nan Goldin, ma anche altri attivisti. Questo è ciò che cercano di fare le persone potenti quando ti metti contro di loro. Così abbiamo cercato di seguire l’uomo che, senza nascondersi, stazionava nei pressi della casa di Nan. Volevo capire chi lo pagasse e desideravo farlo apparire, ma pur essendo riuscita a fermarlo, non sono riuscita a farlo parlare e così quelle immagini non sono finite nel film».
Poitras che, oltre al documentario su Snowden ne ha girato uno anche su Julian Assange, ha una passione per gli individui che con la sola forza delle proprie idee rischiano tutto pur di portare avanti la loro battaglia contro i potenti. «Da sempre mi appassionano i drammi e mi piace osservare gli individui, e non c’è nulla di più drammatico di vedere delle persone che da sole si battono contro qualcosa di molto più potente di loro».
Naturalmente anche lei, con i propri film, è diventata un personaggio scomodo e, pur essendo cittadina americana, è indesiderata nel proprio Paese. «Ho visto il mio file personale in possesso dell’Fbi e so che il mio nome è in una lista di persone considerate terroriste. Ma vivo tranquilla, perché credo sia importante per qualcuno che fa il mio lavoro svelare l’ipocrisia di una nazione che condanna gli abusi dei diritti civili compiuti in altri Stati e poi fa le medesime cose a danni dei propri cittadini. Voglio smontare il mito secondo cui gli Stati Uniti d’America sono migliori di tutti gli altri. Altrimenti si finisce per realizzare progetti come Gutsy (storie di empowerment al femminile di Apple Tv+, ndr) prodotto con il contributo di Hillary e Chelsea Clinton. Una classica operazione di whitewashing, finanziata per rifarsi l’immagine pubblica. Lo sanno tutti che l’ex First Lady e segretario di Stato Hillary Clinton ha avallato l’invasione dell’Afghanistan. E io credo che un documentario non dovrebbe solo dilettare gli spettatori, ma anche informarli. Come fa il buon giornalismo».