Ottant’anni fa i figli dei coloni andati a occupare la «Quarta sponda» tornavano nel nostro Paese. Destinazione: le spiagge estive. Doveva essere un breve soggiorno, ma si trasformò subito in un’odissea. Parla un testimone che ha vissuto le drammatiche «vacanze di guerra», ora al centro di un romanzo appassionante.
Scrisse Omero: «Anche i dolori sono, dopo lungo tempo, una gioia per chi ricorda tutto ciò che ha passato e sopportato». Forse è così anche per Ernesto Susigan, 86 anni, che durante l’infanzia visse una vera odissea. Fu uno dei 13.000 figli dei coloni italiani in Libia partiti per una vacanza in patria nel giugno del 1940 e travolti dalla guerra. Un brandello di vita scivolato tra le pieghe della Storia, dimenticato, da molti rimosso e che ora torna grazie al prezioso libro di Manuela Piemonte Le Amazzoni (Rizzoli). Racconto di una pagina oscura del nostro Paese: il dolore di tre sorelle che da un villaggio libico finiscono in un campo estivo del regime, che presto si trasforma in una prigionia infinita. Susigan, dalla sua casa di Tortona, ricorda quelle «vacanze di guerra».
Nel 1938, 20.000 coloni lasciano l’Italia per la Libia e la sua famiglia è tra questi: «I miei genitori partirono da Jesolo. Contadini, mezzadri, una famiglia numerosa: eravamo in 10 tra fratelli e sorelle. Il regime aveva dato la possibilità a chi si trasferiva nella colonia italiana d’Africa di avere un pezzo di terra propria e una casetta ammobiliata. Il 28 ottobre ci imbarcammo a Genova. Benito Mussolini venne a Gaeta a passare in rivista le navi. È stata l’unica volta che ho visto il Duce. Da lontano. Ricordo che tutti lo salutavano dal parapetto».
Allora 25 ettari per chi non aveva nulla era molto. «Giunti a Tripoli il governatore Italo Balbo ci diede il benvenuto, poi proseguimmo fino alla Cirenaica, scendendo a Bengasi. E da lì ci spostammo nel nostro villaggio. Si chiamava Cesare Battisti, era a cinque chilometri dalle rovine dell’antica Cirene. C’erano altri veneti e gente venuta dal Meridione. Quando siamo arrivati abbiamo trovato nella cucina scorte di viveri per il primo periodo. L’organizzazione era molto efficiente. I miei genitori erano contenti. Con 25 anni di contributi quella terra sarebbe diventata nostra». I primi tempi in Nord Africa nella sua memoria di bambino svaniscono. «Ricordo solo che lungo una strada facevano brillare le mine e un pezzo di roccia mi cadde davanti. Mi spaventai».
Nel giugno del ’40 le scuole stranamente finirono prima e a tutti i bambini della Quarta Sponda (così veniva chiamata la Libia) venne offerto di trascorrere l’estate in patria, nelle colonie gestite dal comando Generale della G.I.L, la Gioventù Italiana del Littorio. Fu chiesto a chi avesse figli dai quattro ai 14 anni di farli partire: sarebbero tornati a settembre. «Non eravamo liberi di scegliere. Se non partivamo la famiglia perdeva i privilegi».
Ancora oggi non è chiaro se quello fosse stato l’estremo tentativo di salvare almeno i bambini dalla guerra che sarebbe scoppiata da lì a poco. Un gesto pietoso verso i più piccoli. Sembra che il Duce avesse pensato a un disegno più ampio: rimpatriare tutte le famiglie italiane. Una cosa impensabile. Scelsero un compromesso e così partirono solo loro. Le stesse navi che avrebbero trasportato i soldati per la battaglia imminente portarono via quei 13.000 ragazzini.
«Era il 6 giugno, avevo cinque anni. A Bengasi le navi non potevano attraccare per il fondale basso così ci fecero salire su zattere, che si chiamavano maone. Ero con mia sorella Ada, i fratelli più grandi, Guido e Alfredo, e due cugini. Ricordo che dalla nave guardai giù e per la prima volta vidi la profondità del mare e ne rimasi colpito. E poi che su quella nave imparai ad allacciarmi le scarpe».
La Marco Polo arriva a Bari l’8 giugno, il porto è già stato minato e deve essere trascinata dai rimorchiatori. I Susigan con un treno raggiungono la Colonia Novarese a Miramare di Rimini: «Era molto bella. Ma il giorno dopo ascoltammo alla radio la dichiarazione di guerra di Mussolini. I miei fratelli capirono subito che non saremmo tornati presto a casa». Per i piccoli la vita inizia a cambiare. Rimangono a Rimini quattro mesi. La routine è scandita da un regolamento ferreo: «Sveglia, lavarsi, vestirsi, rifarsi il letto e poi l’alzabandiera».
A settembre il problema diventa la scuola: «Fummo trasferiti a Bordighera e sistemati al Park Hotel, dove un tempo gli inglesi venivano in villeggiatura. I più grandi furono mandati a lavorare o dislocati in piccole caserme. Io invece andai a scuola in un altro albergo requisito, il Bellosguardo. Eravamo 800 scolari. Sono rimasto quattro anni».
La guerra lampo ormai è un’utopia e i bambini vengono spostati continuamente: Albissola e poi Clusone, sopra Bergamo. Il ricordo dei genitori lentamente svanisce e i giorni sono sempre più duri. «Un Natale ci regalarono un torroncino a testa. Ma a mio fratello serviva un compasso, così lo dovetti scambiare con il mio dolce e rimasi senza nulla. Da mangiare ce n’era poco, dal ’44 in poi il regime era in difficoltà. Ci dissero che chi aveva parenti disponibili a riceverli poteva lasciare la colonia. Così mi caricarono su un camioncino verso Treviso, dove avevo uno zio. Durante il viaggio un aereo spia inglese ci mitragliò. Scappammo spaventati a nasconderci sotto i gelsi». Ernesto e la sorella Ada furono accolti dagli zii: «Aiutavo a pascolare l’unica capra che c’era. Dei miei non avevo più notizie».
I fratelli vennero mandati a lavorare nei campi in Emilia: «Il regime dava una somma a chi prendeva questi ragazzi in affido». Nel ’45 vengono a sapere che se avessero raggiunto Roma potevano essere rimpatriati. Con la sorella arriva nel terribile campo profughi di Cinecittà: «Ci sistemarono nel Teatro 5, quello di Federico Fellini. Aspettavamo la chiamata per tornare a casa: avevo 10 anni e Ada 15. Non arrivò mai, invece mi ingaggiò un regista per fare la comparsa in un film. Mi diede come compenso un pugno di caramelle, un tesoro nel ’46».
La Cirenaica ormai era stata conquistata dagli inglesi, che non volevano più gli italiani. Imposero una regola: tanti rimpatriavano, altrettanti potevano tornare. Solo 1.500 ragazzi riuscirono a rientrare legalmente, mentre alcune centinaia lo fecero da clandestini con barconi e pescherecci. I Susigan tornano dai parenti in Veneto, mentre i genitori decidono di abbandonare la Libia. «Nel ’47 veniamo a sapere che sono in un campo profughi a Napoli. Partiamo in treno per incontrarli: io, Ada e mio fratello maggiore. La zia che ci ospitava ci regalò una torta da mangiare tutti insieme. Arrivati a Napoli scoprimmo che erano stati trasferiti ad Alessandria. Il mio unico pensiero era la torta: quando avremmo potuto mangiarla?».
Invece non la mangeranno mai. «Con un lungo viaggio tornammo indietro e arrivammo ad Alessandria a tarda sera. Così siamo stati costretti a dormire in stazione e al mattino dopo l’amara sorpresa: i ladri avevano rubato la valigia di mio fratello e il dolce».
Al campo profughi della vicina Tortona riabbracciano i genitori dopo sette anni: «Non li ho più riconosciuti». Fino al ’55 restano a vivere lì, nell’ex caserma Passalacqua, dove Ernesto conobbe la moglie, profuga istriana. Ma questa è un’altra storia.