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Christoph Waltz: «Amo il western ma odio John Wayne»

Christoph Waltz: «Amo il western  ma odio John Wayne»

Christoph Waltz, l’attore viennese vincitore di due Oscar (Bastardi senza gloria, Django unchained), torna con un altro ruolo da cacciatore di persone, in un film sul selvaggio Ovest. A Panorama racconta la sua antipatia per il mitico protagonista di Ombre rosse. E come si è calato nella parte: «L’interprete deve scomparire nel personaggio e non diventare lui il personaggio».


«Il genere western per me è stato un’esperienza formativa: è stato guardando quei film che da ragazzino ho imparato qual è la differenza tra bene e male. Però poi tutta quella roba americana mi ha stufato e, francamente, se devo dire quali sono i veri western non posso che rispondere gli “spaghetti western” di Sergio Leone. Anche se non ho mai capito perché c’entrassero gli spaghetti». Christoph Waltz, 66 anni, attore viennese assurto alla fama mondiale con il ruolo del nazista Hans Landa in Bastardi senza gloria che gli ha fruttato il primo Oscar della sua carriera, spiega così la relazione con il genere cui ora fa ritorno dopo aver interpretato un cacciatore di taglie in Django Unchained (secondo Oscar), sempre di Quentin Tarantino. In Dead for a Dollar, per la regia di Walter Hill, in arrivo a noleggio dal 13 marzo su Prime Video, Sky Now, iTunes e altri servizi di streaming online, Waltz interpreta Max Borlund, un bounty hunter basato sulla vera figura dell’ex ufficiale danese Chris Madsen emigrato negli Stati Uniti. L’uomo viene incaricato da un ricco possidente di ritrovare la moglie (Rachel Brosnahan), portata via da un soldato nero confederato (Brandon Scott), e così si incammina verso il Messico sulle loro tracce. Presto però scoprirà che dietro il rapimento si cela un’altra verità e lungo il suo viaggio troverà una serie di ostacoli, compreso l’incontro con il fuorilegge Tiberio Vargas (Benjamin Bratt) e i suoi tirapiedi. Nel frattempo sulle tracce di Borlund si mette anche Joe Cribbens (Willem Dafoe), un criminale dal ghigno inconfondibile che ha una morale tutta sua, ma anche un conto in sospeso da regolare con il cacciatore di taglie. «Mi ricordo che volevo andare al cinema a vedere C’era una volta il West, di Sergio Leone, ma ero troppo piccolo perché bisognava avere 16 anni per entrare in sala» dice Waltz. «Così me lo sono fatto raccontare dai miei compagni, che avevano la mia stessa età ma erano riusciti a entrare perché sembravano più grandi. In Austria non esiste nessuna tradizione del western, ma il genere ovviamente è arrivato anche da noi: ne sono stato influenzato, ma non è tra i miei preferiti. E se dovevo parteggiare per qualcuno tra indiani e cowboy sicuramente non sceglievo i cowboy».

Cosa l’ha attratta di questo progetto?

Quando Walter Hill mi ha mandato da leggere la sceneggiatura mi ha attratto per la sua semplicità. Tutto è chiaro in questa storia: i personaggi, il loro codice morale e la narrazione che prosegue lineare da un punto A a un punto B. Se c’è una cosa che non sopporto è il cinema postmoderno, che finge di essere intellettuale e scompone il racconto, vuole reinventarlo, capovolge una storia solo per il gusto di farlo. E così non ti interessa più la storia in sé, ma soltanto il modo di raccontarla. Lo trovo artificioso e pseudointellettuale, una specie di esperimento di qualcuno che, anziché cercare di dire qualcosa agli altri, parla a sé stesso. Preferisco il cinema classico, semplice.

Il personaggio di Max Borlund è abbastanza simile a quello del dottor King Schulz di Django Unchained

Lei trova?

Beh, sono entrambi cacciatori di taglie, uno degli archetipi del vecchio West.

Nella commedia dell’arte, che è teatro popolare in cui vari tipi della popolazione vengono condensati in un personaggio, l’attore indossa una maschera che caratterizza un archetipo. In un certo senso ogni genere ha queste semplificazioni sullo sfondo e quindi concordo che Schulz e Borlund possano rispondere a un archetipo. Ma poi ogni personaggio è diverso, vive nel mondo personale di chi lo ha scritto e viene interpretato da un attore. Ecco perché io non vedo poi così tante somiglianze tra Borlund e Schulz. Forse lei ha l’idea che tutti i cowboy siano uguali, perché molti attori li hanno interpretati pensando di dover assecondare fino in fondo l’archetipo.

Come quelli che, indossato un cappello, si sentono John Wayne…

Farò una confessione, ma non lo scriva: l’ho sempre odiato. Voglio dire: se sei John Wayne e interpreti un cowboy, perché devi fare John Wayne? Basta limitarsi a interpretare la parte. L’attore deve scomparire nel personaggio e non diventare lui il personaggio.

I suoi cattivi hanno qualcosa in comune: non sono mai come te li aspetti. Come li costruisce?

Faccio esattamente questo: sottraggo loro quei tratti che li fanno considerare come bad guy e li interpreto. Chi è malvagio non pensa mai di essere tale e anche io sul set faccio così.

Borlund ha una sua morale, ma non è certo uno stinco di santo. Lei come si è preparato per interpretarlo?

Allo stesso modo in cui preparo tutti gli altri: sono convinto al 100 per cento che la disciplina sia il punto di partenza per pensare, agire e anche per provare emozioni, soprattutto se lo fai al servizio di una sceneggiatura. Oggi forse è considerato un approccio vecchio stile, invece credo sia la fondazione di ogni forma di comunicazione.

La sua disciplina da dove proviene? Lo dica, da austriaco, agli italiani…

Crede che gli austriaci siano più disciplinati degli italiani? Si sbaglia. Quelli sono i tedeschi.

E quindi?

Penso che nella vita le persone siano sempre troppo concentrate su come si sentono. Anche gli attori. Ma che importanza ha come ti senti? Le emozioni sono irrilevanti per fare un lavoro. Per questo ci vuole disciplina. Bisogna domandarsi: di cosa ho bisogno per interpretare quel personaggio? E se uno magari pensa di non avere gli strumenti adatti, anche il solo provarci è un modo di andare avanti. Ora non intendo che si debba aderire a una forma di ferrea disciplina militare prussiana, ma credo che in generale nell’affrontare un problema ci si debba chiedere qual è la soluzione ideale. La più semplice e lineare, scevra da ogni interrogativo sulle proprie emozioni a riguardo.

Ho letto che tra i suoi progetti futuri c’è Billy Wilder & Me, in cui lei dovrebbe interpretare il leggendario regista. Cosa può dire a riguardo?

Che in realtà detesto i biopic, le biografie al cinema. Servono solo a far apprezzare al pubblico quanto sono bravi i truccatori. Ma questo film, che spero si farà, è scritto da Christopher Hampton e non riguarda la carriera di Wilder, ma uno specifico momento della sua esistenza, una sorta di canto del cigno, che non ha nulla a che vedere con la celebrità delle persone coinvolte. Per questo ho detto «sì».

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