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Sindrome cinese

Sindrome cinese

Pechino ha adottato, per la politica «zero Covid», un rigidissimo sistema di restrizioni, domicili forzati e «spionaggio» dei cittadini, scatenando dure contestazioni. L’obiettivo futuro è ancora più inquietante: una telecamera di sorveglianza ogni due abitanti.


Wuhan, provincia dell’Hubei, Cina centrale. È il 28 novembre 2022 e la signora Wang (il nome è di fantasia, la persona reale) sta rincasando. È stata al supermercato, dove ha finalmente fatto la spesa impiegando tutto il tempo necessario; quello cioè che le è mancato negli ultimi due anni, durante i quali è stata costretta a singhiozzo a restare chiusa in casa, secondo gli ordini tassativi del governo. Ora però è libera, così ha comprato gli ingredienti per una cena speciale da preparare al marito. Ma al suo rientro, davanti al portone, due uomini in tuta bianca l’aspettano. Sono agenti di salute pubblica, la temibile polizia cinese.

«Signora Wang?» domandano con una certa sicurezza. «Sono io…» replica la donna. «Lei risulta essere stata in contatto con la famiglia Ling questa settimana». «In effetti, è così» balbetta la signora. «Ma come fate voi a saperlo?» domanda. «Non importa» tagliano corto gli ufficiali. «Ci deve seguire per l’applicazione del protocollo da close contact». «Ma io sto benissimo…» protesta la signora Wang, che ha subito compreso il senso di quell’appostamento. «…E poi ho visto i Ling giusto qualche minuto nel cortile sotto casa». Per lei non ci sarà niente da fare. Addio alla cena e alla libertà ritrovata. I coniugi Wang passeranno i successivi cinque giorni presso una struttura sanitaria dove dovranno effettuare (a loro spese) una serie di test, e altri tre giorni di monitoraggio domiciliare. Dopodiché dovranno seguire pedissequamente le disposizioni governative utilizzando gli applicativi di tracciamento da cellulare, che puntano a prevenire la diffusione del virus con misure di prevenzione e controllo: richiedono esiti di tamponi periodici, indicano eventuali nuove quarantene e predispongono limitazioni agli spostamenti.

Ecco la vita in Cina dopo oltre due anni di lotta al coronavirus. Ne sanno qualcosa anche i lavoratori della Foxconn, a Zhengzhou, una delle più grandi fabbriche di Cina, che fornisce l’americana Apple assemblando gli iPhone per mezzo mondo. Anche qui, come in moltissimi altri stabilimenti in tutto il Paese, il governo di Pechino ha risposto ai focolai di Covid-19 esplosi nelle zone limitrofe istituendo il «circuito chiuso»: un sistema che ha sigillato i lavoratori, costringendoli a vivere per lungo tempo all’interno della struttura stessa di lavoro per evitare contagi dall’esterno e mantenere inalterato il ritmo della produzione.

Ma qualcosa è andato storto e la situazione è presto degenerata, sfociando nel caos quando il cibo è venuto a mancare insieme con gli stipendi. Oltretutto il virus si è comunque diffuso, e così molti operai esasperati hanno dato vita a disordini e scontri con le forze dell’ordine. Schedati e monitorati costantemente, numerosi altri dipendenti hanno scelto la via della fuga, prima di essere riacciuffati grazie al riconoscimento facciale.

Sembra la trama di un film su un futuro distopico alla Blade Runner, ma è la triste cronaca della Cina al tempo di Xi Jinping e della sua politica «zero Covid». Che, neanche a dirlo, si è rivelata un fallimento totale. Eccetto che per la capacità straordinaria della tecnologia di cui dispone il governo, effettivamente in grado di spiare ogni singolo movimento dei suoi cittadini. Come del resto hanno avuto modo di sperimentare sulla propria pelle la signora Wang e gli operai della Foxconn.

Così come in altri campi, anche in quello della videosorveglianza la Repubblica popolare non teme rivali. Basta setacciare la classifica delle città con più occhi elettronici in funzione al mondo per constatare che si tratta, in buona parte, quasi soltanto di realtà cinesi. Il record appartiene alla città di Chongqing, detta la «Chicago cinese», la metropoli più grande del mondo che si trova nella Cina centro-meridionale e che conta oltre 32 milioni di abitanti (se si considera anche l’hinterland, si arriva a 39 milioni).

Secondo uno studio di Comparitech – think tank che fornisce informazioni e confronti su sicurezza informatica e protezione della privacy online – a Chongqing sono in funzione 168 telecamere ogni mille abitanti: ovvero complessivamente più di 2,5 milioni di apparecchi che osservano e registrano i singoli movimenti dei cittadini 24 ore al giorno, installati lungo strade, alberi, pali della luce, persino corti interne e hotel. La graduatoria di Comparitech è stata realizzata in base a una dettagliata ricerca che ha raccolto e messo a confronto documenti governativi, dati estrapolati dai siti delle forze di polizia, oltre a report, analisi e articoli sull’utilizzo delle telecamere per la sicurezza e per il controllo del traffico nelle 120 città più popolose del mondo.

In classifica dietro a Chongqing ci sono le città cinesi di Shanghai e Shenzhen, con circa un milione di telecamere installate ciascuna; mentre nella capitale Pechino gli apparecchi installati sono 1,15 milioni, che corrispondono a circa 60 telecamere ogni mille abitanti. A livello pro capite, tuttavia, sono Taiyuan (capitale della provincia centrale di Shanxi) e Wuxi (provincia di Jiangsu) le città più videosorvegliate: basti pensare che a Taiyuan ci sono 110 telecamere ogni mille abitanti.

Basterebbero questi dati scioccanti a sottolineare come la videosorveglianza urbana sia in costante e geometrica espansione in Cina, Paese che ambisce in maniera sempre meno velata a predisporre, per un futuro niente affatto lontano, un sistema di monitoraggio che disponga di una telecamera ogni due cinesi. Come l’occhio di Horus della religione egizia, «colui che tutto vede e tutto sa». Anche se in quel caso, Horus era un simbolo onnipresente di protezione che simboleggiava prosperità e buona salute, ed era riferito agli dei e al loro dominio sul mondo dei mortali. Mentre il governo cinese, per quanto potente, non ha niente di divino, semmai di diabolico. La supremazia incontrastata in questo settore da parte di Pechino è confermata da una recente inchiesta pubblicata dal quotidiano South China Morning Post, secondo cui in Cina sono concentrate metà delle telecamere di sorveglianza sparse in tutto il mondo. Tra le regioni che stanno investendo di più c’è la provincia di Guandong, che ne ha appena approvato l’acquisto di 500 mila di ultima generazione.

Ma quante sono, in totale, quelle in funzione nella Repubblica Popolare? Alla domanda, le autorità cinesi hanno indicato la cifra di 20 milioni, che però non convince affatto gli analisti, che indicano cifre nettamente più alte. L’obiettivo di Pechino, secondo accurati report di intelligence, è di arrivare a quota 567 milioni di telecamere entro la fine del mandato di Xi Jinping. E dunque il traguardo dev’essere più vicino di quanto non si creda. Un’eredità orwelliana, quella della pervasività del «Grande fratello cinese», che preoccupa non solo Washington ma anche i difensori dei diritti civili.

Il rischio in Cina è infatti che tali sistemi di videosorveglianza, ormai quasi tutti muniti di riconoscimento facciale (è la stessa polizia di Fujian a stimare in circa 2,5 miliardi le immagini facciali memorizzate nei database centrali), siano utilizzati dal governo per profilare e costringere a tacere dissidenti e minoranze etniche. È quello che, d’altronde, abbiamo visto accadere a Hong Kong e nella regione autonoma dello Xinjiang, a maggioranza uigura. Tramite le immagini ad alta definizione, infatti, si può già oggi risalire all’identità di una persona grazie anche all’ultimo ritrovato della tecnologia, la scansione dell’iride.

Di più: attraverso le impronte digitali – che centinaia di milioni di utenti usano per semplici operazioni come sbloccare il telefono o pagare con app – si possono conoscere usi e abitudini delle persone; mentre tramite sim card si possono tracciare movimenti e conoscere la posizione esatta di chiunque abbia con sé il proprio smartphone. Così come è possibile raccogliere suoni e registrazioni, catalogando anche il timbro di voce di una persona.

Questo gigantesco sistema di spionaggio, tuttavia, non ha permesso sinora al governo di prevedere le rivolte scoppiate ormai un po’ ovunque in Cina, né ha impedito le manifestazioni di dissenso: quei fogli e striscioni agitati dai contestatori e lasciati significativamente in bianco, a voler sottolineare quanto pervasiva ed estenuante sia la censura nell’ex Celeste impero. Che ormai si è trasformato in un incubo tecnologico.

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