La fame di minerali di Russia e Cina alimenta la loro competizione per lo sfruttamento di uranio, rame, ferro e ora litio, di cui sono ricche in particolare Afghanistan e Kazakistan. La corsa a queste risorse da parte delle due superpotenze è solo all’inizio…
Siamo così sicuri che l’asse Cina-Russia si sia rafforzato con la guerra in Ucraina? Certo, la convenienza e le circostanze hanno reso i due Paesi alleati di fatto, obbligando Mosca a scambiare con Pechino più di quanto non volesse. E certo, a parole, insieme stanno costruendo «un nuovo ordine mondiale». Ma c’è un ambito in cui la competizione tra le due superpotenze aumenta. A dirlo sono i fatti, e un principio economico che, mutuato dal latino, potrebbe tradursi in mors tua vita mea. Fin dall’estate scorsa alcuni rapporti del Gru, il servizio segreto militare russo, mettevano in guardia il Cremlino proprio dalle attività ostili di Pechino nei cosiddetti «Stan», i cinque ex Stati dell’Unione Sovietica rimasti nella sfera d’influenza di Mosca. Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan.
Qui da sempre la Russia esercita un’influenza al contempo politica ed economica, che si allarga finanche in Afghanistan e Tibet. Cambi di regime, governi, politiche economiche e strategie militari sono sempre state co-dirette dal Cremlino o, comunque, da esso influenzate. Il Kirghizistan, per esempio, è una cornucopia di materie prime imprescindibili per una mono-economia come quella russa: qui si trovano oro, gas, argento, carbone, rame, stagno e zinco. Elementi preziosissimi tanto per l’approvvigionamento interno quanto per gli scambi sui mercati internazionali.
Mentre il sottosuolo del Tagikistan, ancora non del tutto esplorato, è ricco di petrolio, gas, carbone, oro, tungsteno, zinco. E così il Turkmenistan, dove abbondano i combustibili fossili, mentre i giacimenti dell’Uzbekistan forniscono altro oro, rame e soprattutto uranio, preziosissimo per l’energia nucleare. Nulla in confronto al Kazakistan, tuttavia, il gigantesco (ma quasi inabitato) Paese che dal Mar Caspio si estende a ovest fino ai Monti Altai e, a est, al confine con Cina. Qui viene estratto ben il 40 per cento della produzione mondiale di uranio (nel 2021 sono state ricavate dalle sue miniere oltre 21.800 tonnellate, una cifra record).
Ecco la ragione dell’attivismo cinese in questi territori. Il Dragone contemporaneo è infatti un Paese energivoro e, per sostenere la sua gigantesca domanda interna senza scontentare il fabbisogno dei mercati internazionali, ha bisogno di accaparrarsi continuamente quante più materie prime possibile. Dopo lo sfruttamento intensivo delle miniere africane, oggi il governo di Pechino, galvanizzato soprattutto dal «momento difficile» che la Russia vive in ragione dell’avventurosa guerra in Ucraina, ha puntato sull’Asia centrale.
Nell’estate 2021, consapevole di un espansionismo potenzialmente dannoso per la Russia, Vladimir Putin aveva incaricato il suo ministro degli Esteri Sergej Lavrov di trattare con i cinesi sullo «shopping» negli ex Stati satellite dell’Urss. Ma Pechino ha continuato a tirare dritto. In previsione dei XXIV Giochi olimpici invernali del febbraio 2022, Lavrov avrebbe persino (imprudentemente) avvisato i cinesi dell’imminente «operazione militare speciale» in Ucraina, prestando così il fianco alle contro deduzioni di Pechino: l’impegno militare di Mosca verso Occidente le avrebbe lasciato scoperto il fianco orientale. Senza considerare le difficoltà già in essere nelle ex repubbliche sovietiche.
Per mantenere sotto la sua sfera d’influenza il Kazakistan, per esempio, Mosca era dovuta intervenire militarmente con un’operazione durata dal 2 al 12 gennaio 2022, al fine di sedare la rivolta popolare contro il caro energia. La piazza puntava a destituire il neo presidente Qasym-Jomart Toqaev, subentrato nel 2019 al longevo Nursultan Nazarbayev, salito al potere nel lontano 1990 e da allora garante del pieno appoggio alle manovre politico-economiche del Cremlino nella regione. L’operazione era stata condotta nell’ambito dell’alleanza strategica Otsc – che riunisce Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Russia e Tagikistan – e aveva avuto quale risultato un repulisti del vecchio regime. Ma, anziché ringraziare, lo scorso 21 giugno al Forum di San Pietroburgo il presidente Tokaev ha preso per la prima volta ufficialmente le distanze da Mosca: «Il Kazakistan non riconoscerà né l’indipendenza delle Repubbliche autoproclamate di Donetsk e Lugansk né l’annessione russa della Crimea, così come non aiuteremo la Russia ad aggirare le sanzioni occidentali». Ovvio che dietro il voltafaccia di Tokaev ci sia la mano di Pechino.
«Il modo in cui l’Asia Centrale pensa a Mosca è cambiato» commenta Temur Umarov, analista del think tank Carnegie Moscow Center. «I governi cercheranno di minimizzare l’influenza della Russia. Sarà difficile da fare, ma non hanno altra scelta perché Mosca è diventata una potenza imprevedibile». Per ricondurre il Kazakistan a più miti consigli, Putin lo scorso 29 giugno è stato costretto a correre ad Ashgabat, capitale turkmena, al Vertice degli Stati del Caspio, per incontrare i capi di Stato di Iran, Kazakistan, Azerbaijan e Turkmenistan. Questi Paesi quattro anni fa avevano siglato una convenzione per condividere le risorse naturali e regolamentare il traffico marittimo civile e militare. Ma a oggi il partenariato dei «cinque del Caspio» non ha fatto alcun significativo passo in avanti, complice il soft power cinese, con Pechino pronta a sfilare a Mosca i suoi storici alleati.
Cina e Russia sono in concorrenza anche per le miniere afghane. Né Xi Jinping né a maggior ragione Putin si fidano dei talebani, e tuttavia il sottosuolo afghano ha enormi risorse minerarie – rame, ferro, bauxite, litio, bauxite, carbone, cromo, piombo, zinco, talco, zolfo, travertino, gesso, marmo e terre rare – stimate in oltre un trilione di dollari. Senza contare la posizione strategica che occupa questo Paese per la Cina (con cui confina). Ecco che i Talebani già intendono aprire al consorzio cinese costituito da Jiangxi Copper Group e China MinMetals Corporation per far partire il progetto estrattivo della miniera di rame di Mes Aynak, da cui gli studenti del Corano ricavano più di 300 milioni di dollari all’anno risanando qualcosa come il 60 per cento dell’intero bilancio statale.
Dentro la miniera di rame di Aynak, a sud della capitale Kabul, si troverebbero infatti circa 450 milioni di tonnellate di questo minerale, per un valore complessivo che potrebbe superare gli 80 miliardi di dollari. Le concessioni sono già in mano al consorzio cinese sin dal 2007, ma a causa della continua instabilità del dell’Afghanistan, l’opera di estrazione non è mai partita. Infine, il Tibet. Qui la «questione tibetana» relativa allo status della regione (una nazione di fatto indipendente occupato militarmente dai comunisti secondo Usa e Dalai Lama; un Paese che appartiene da sempre alla Cina ed è inalienabile, secondo Pechino) ha impedito a lungo alla superpotenza asiatica una politica economica di ampio respiro. Con Washington che per anni ha usato i separatisti tibetani come arma geopolitica per esercitare pressioni sulla Cina. Mentre Mosca mantiene una posizione diplomatica, consapevole del ruolo che la religione esercita sul governo di Lhasa.
Ciò nonostante, è proprio nel Tibet che Pechino cerca oggi la soluzione alla sua dipendenza dalle importazioni (per oltre il 70 per cento) di litio, elemento indispensabile al predominio globale sulla produzione di batterie. Il litio è la chiave della mobilità elettrica del futuro, settore dove la Cina ha investito ingenti risorse per acquisirne il primato e riuscire a mettere fuori gioco le case automobilistiche occidentali, che l’hanno storicamente relegata ai margini di questo mercato. La scoperta di un colossale giacimento di litio (l’esatta posizione è tenuta in opportuno riserbo ma dovrebbe trovarsi nel «tetto del mondo», l’altopiano del Qinghai-Tibet) «potrebbe finalmente rendere il Dragone indipendente dalle forniture occidentali» riflette Giovanni Brussato, ingegnere minerario. Le opportunità sono immense, così come le difficoltà: la regione himalayana è uno degli ecosistemi più fragili al mondo per il riscaldamento globale, fonte d’acqua per miliardi di persone che vivono a valle nel sud e sud-est asiatico. E per estrarre il litio a quell’altezza servirebbe proprio un’operazione industriale ad alta intensità energetica e idrica.
