La regione del Donbass su cui si concentra l’offensiva russa è dominata da scontri e distruzione. Nelle città spettrali, nascosti nei sotterranei, vivono i pochi civili rimasti. Alcuni cercano di allontanarsi sugli ultimi treni. Mentre i soldati ucraini tengono la prima linea: «Piuttosto che arrenderci ci facciamo saltare in aria».
Sul momento non si capisce dove sono arrivati i due colpi di artiglieria. Padre Oleh guida veloce e a ogni esplosione rassicura in perfetto italiano: «Non preoccuparti don Bosco ci protegge. Le granate arrivano o prima o dopo il mio passaggio». Non finisce la frase che le due alte colonne di fumo delle cannonate russe si alzano verso il cielo, paurosamente vicine, fra le case di Sieverodonetsk, sulla prima linea del Donbass. Una terza esplosione ca capire che i russi non scherzano e a tavoletta superiamo una distesa di cenere e frammenti di razzi in mezzo alla strada.
Dopo lo scacco di Kiev con la ritirata della truppe di Mosca dalla periferia della capitale, i soldati russi si stanno concentrando sulla regione contesa del Donbass nell’est del Paese, dove tutto è iniziato con l’invasione del 24 febbraio. E tutto potrebbe finire con l’annunciata tempesta di fuoco, una battaglia decisiva per garantire al nuovo zar, Vladimir Putin, una vittoria conquistando tutto il territorio, in parte ancora sotto controllo degli ucraini. Il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba teme un’offensiva feroce che «ricorderà la Seconda guerra mondiale con migliaia di carri armati, mezzi corazzati e aerei». A condurla il generale scelto dal Cremlino, Aleksandr Dvornikov, che ha fatto tabula rasa in Siria.
Padre Oleh è diventato sacerdote salesiano in Italia vivendo 8 anni fra Lombardia e Piemonte. Greco-cattolico è un cappellano militare sulla linea del fuoco fin dall’inizio del conflitto nel 2014. Al collo porta sempre la croce di don Bosco e la sua pericolosa missione è rifornire di acqua, medicinali e generi di prima necessità i punti più esposti del fronte con un furgoncino. Una volta scaricati gli aiuti all’ospedale di Sieverodonetsk, riempie il mini van di civili in fuga dalla guerra, che non hanno altra possibilità per venire evacuati.
La sua «spalla» è don Sergio, barbone da profeta, che vive a Liysycansk, a ridosso del fronte. Anche lui parla bene italiano. «Bombardano ogni giorno» ammette facendo slalom fra i cavi di alimentazione dei filobus strappati dalle esplosioni e che ora penzolano nel vuoto. Sieverodonetsk è una città spettrale, violentata dalla guerra, ma non è l’unica nel mirino dei russi sul fronte del Donbass. Prima di arrivare ad Avdiyivka passiamo su una strada deserta con le colonne di fumo nero e grigio che si alzano dalle campagne.
I russi bombardano dal mattino a caccia dell’artiglieria ucraina annidata in qualche campo, che si sposta di continuo per evitare di venire colpita dalle cannonate. Ampie chiazze nere segnalano dove sono già cadute le granate, incendiando i prati rinsecchiti dall’inverno. Un grande cartello bianco a un incrocio indica che il centro di Donetsk, la roccaforte dei separasti filo russi, dista 6 chilometri. In mezzo ci sono solo trincee e campi minati. Il silenzio desolante è rotto dai tonfi delle cannonate e dalla sequenza paurosa dei razzi Grad lanciati da tutte e due le parti della barricata. Quando l’esplosione è più fragorosa o si sente il sibilo significa che la granata russa piomba vicino. Un Grad inesploso si è appena conficcato nell’asfalto davanti a noi. L’autista nemmeno cambia strada e si limita a scansarlo.
Il memoriale dei difensori della zona industriale, caduti nella guerra del Donbass scoppiata nel 2014, è la prima linea. Leonid, di guardia alla postazione ucraina che sbarra la strada, ci corre incontro agitando il kalashnikov: «I russi sono a 150 metri. Non potete andare oltre». Poi ci fa strada nel camminamento che avevano trasformato in museo, dove hanno appeso i resti delle granate di mortaio o dei razzi controcarro Rpg piombati sulla postazione. Il bunker dove venivano in visita le famiglie, riutilizzato per l’invasione con tanto di letto castello e stufa a legna, è tappezzato da icone dei santi ortodossi, disegni dei figli dei combattenti e due pulcini portafortuna di stoffa. «Durante la notte è un inferno, ma se attaccano li fottiamo» taglia corto Leonid con la sicurezza del veterano, aggiungendo un gestaccio nei confronti dei russi.
Gli edifici popolari di periferia sacrificati dai razzi a prima vista sembrano disabitati, ma dalle macerie emergono i pochi civili rimasti. Una coppia trasporta bidoni d’acqua che non c’è più, la mamma con due bambini corre con un po’ di cibo in mano da un edificio all’altro mentre il tonfo delle esplosioni si fa sempre più vicino. Gli anziani vivono da oltre 40 giorni sottoterra, nelle catacombe moderne, locali maleodoranti e umidi utilizzati come rifugi alla base dei condomini.
Dietro una tenda due famiglie hanno trasformato lo spazio angusto in un bivacco. Nena, i capelli grigi, è la più anziana. Accanto c’è il marito con il bastone e la figlia seduti su un letto improvvisato. Un lume fioco li illumina di luce tetra: «Non abbiamo medicine. I viveri scarseggiano e comincia a mancare anche l’acqua» racconta fra le lacrime. Le esplosioni a intermittenza dell’artiglieria all’esterno si avvertono chiare. Fra i sopravvissuti di Avdiyivka c’è Vincenzo, che ha abitato in Italia per 10 anni. «Non ho paura che arrivino i russi» spiega in mezzo dialetto napoletano. E alla domanda su cosa pensa del presidente ucraino Volodymyr Zelensky fa una smorfia e se ne va.
Nella tempesta del Donbass incontriamo una leggenda: Oleksiy Yukov, il «tulipano nero» che rischia la vita per recuperare i corpi dei caduti in prima linea, anche russi, o dei civili massacrati dai bombardamenti per una degna sepoltura. Artur, il suo giovane aiutante, promessa di boxe thailandese, racconta che «Oleksiy era stato catturato all’inizio della guerra, otto anni fa. I separatisti lo avevano bendato e gli avevano legato le mani dietro la schiena. Stavano per ammazzarlo con un colpo di pistola alla nuca». In giubbotto mimetico e croce rossa, Artur prosegue: «Un filorusso l’ha riconosciuto e chiesto al comandante di risparmiarlo perché il “tulipano nero” recupera anche i loro morti». Oleksiy, berretto militare e barbetta, è al volante di un camioncino frigo con una grande croce rossa sulla fiancata. «Se troviamo i corpi di appartenenti ai gruppi armati illegali oppure a reparti russi cerchiamo di scambiarli con i caduti ucraini che recuperano loro» conferma. Da Sloviansk parte l’11 aprile l’ultimo treno verso ovest per l’evacuazione dal Donbass. Pavel, che si sorregge con un bastone, è convinto di «ricostruirsi una vita a Leopoli» a 87 anni. L’anziano ricorda che «all’arrivo dei tedeschi durante la Seconda guerra mondiale il fronte era più definito. Adesso c’è il caos. Bombardano da tutte le parti».
I civili che affollano la pensilina sono allineati in una fila silenziosa e sui volti portano il dolore della fuga. Un papà spinge la carrozzina con il figlio neonato, un mutilato su una sedia a rotelle ha perso tutt’e due le gambe, le donne piangono e i bambini aiutano i familiari a trasportare sacche, zaini e trolley. Nastia è una ragazzina, attaccata al suo cellulare viola, e sta per salire sui vagoni della speranza. Quando chiediamo alla madre della guerra, la bambina ci mostra una foto di macerie su Instagram: «La mia scuola bombardata. Per questo scappiamo». La parola più usata fra gli sfollati è mir, pace.
A Pisky corrono le trincee davanti all’aeroporto di Donetsk distrutto dai combattimenti. Il battaglione Sermant, che si ispira ai guerrieri persiani e fa parte della brigata Mariupol, tiene il fronte con le unghie e con i denti. Un ufficiale racconta: «Una cannonata di un tank russo ha sollevato la terra davanti alla nostra postazione. Abbiamo le bombe a mano per il combattimento ravvicinato» oppure «per farci saltare in aria piuttosto che venire presi vivi». La compagnia vive in un tunnel trasformato in camerata per proteggersi dai bombardamenti dove non mancano la runa, una svastica e simboli del battaglione Azov accusato di simpatie filo naziste. Tutti si aspettano l’attacco devastante. Irina, che ci scorta bardata con elmetto, giubbotto antiproiettile e kalashnikov, non ha dubbi: «I russi migliori sono quelli morti».
