Il 1° febbraio 2020 il Regno Unito diceva addio a Bruxelles, alle mediazioni, alla burocrazia. Ma la transizione verso il ruolo di «battitore libero» del continente è molto più complicata del previsto. Tra perdita di valore dell’economia, fuga di capitale umano e scioperi in settori cruciali come la sanità.
«Indietro non si torna, però che nostalgia. L’erba del vicino europeo non è mai sembrata così verde ai cittadini del Regno Unito travolto dalla crisi. Con la sterlina che in dicembre è scesa ai minimi storici nei confronti dell’euro (con la quotazione della divisa fino a 1,12 euro) e il Paese messo in ginocchio dagli scioperi a singhiozzo dei dipendenti pubblici, il confronto è inevitabile. E addossare ogni responsabilità alla pandemia e alla crisi ucraina non è più facile come qualche mese fa, perché bisogna fare i conti con i numeri e la crescente insoddisfazione della popolazione. Per la prima volta, persino il 33 per cento dei conservatori ritiene che l’uscita dall’Europa abbia portato più danni che benefici, come rileva un sondaggio dell’istituto Opinion per l’osservatorio politico Best for Britain.
A sei anni dal referendum e a due dalla fine del periodo di transizione, la Brexit non ha ancora dato i risultati promessi dai suoi principali sostenitori, da Boris Johnson in poi. E se durante l’emergenza indotta dal Covid il divorzio dall’Unione aveva consentito al Regno Unito di fregiarsi di una campagna di vaccinazione immediata e migliore, ora questa stessa condizione aggiunta alla crisi internazionale ha trasformato l’economia britannica nel fanalino di coda per quanto riguarda la crescita. Un recente studio della London School of Economics ha rilevato che l’uscita dal consesso europeo ha aumentato di circa 210 sterline la media del costo dei prodotti alimentari, dovuto al rincaro dei prezzi delle merci d’importazione causati dagli ulteriori controlli e dalla documentazione richiesta per il passaggio alle frontiere. E sebbene il governo si ostini a dichiarare di aver ridotto al minimo le procedure burocratiche richieste, la maggior parte delle aziende lamenta enormi disagi dovuti alla nuova regolamentazione. La Camera di commercio nazionale continua a ricevere lamentele dalle imprese messe in seria difficoltà dai recenti accordi commerciali stretti con gli altri Stati del continente e l’ultimo rapporto del Centre for european reform suggerisce che la Brexit potrebbe aver ridotto fino al 7 per cento i flussi commerciali britannici.
Sempre la Camera di commercio ha intervistato più di mille compagnie e la metà ha dichiarato che gli scambi commerciali sono diventati un incubo. Poco avvezze all’apparato burocratico europeo, soprattutto le compagnie più piccole non sanno più da che parte girarsi. In un caso è stato necessario riempire ben 71 formulari per il passaggio al confine di un solo camion. «Una situazione insostenibile» spiega il proprietario di un’azienda in Ayrshire. «Abbandonare l’Unione ci ha resi poco competitivi per i nostri clienti». «Persino importare le parti di ricambio per i macchinari» aggiunge il responsabile di una società manifatturiera nel Dorset «è diventato complicatissimo. La Brexit ci ha imposto un carico burocratico che nessuno di noi può affrontare senza ingenti perdite. Per compagnie di dimensioni limitate come la nostra esportare non è più conveniente».
Il tentativo di compensare queste perdite con la sottoscrizione di accordi commerciali con aree extraeuropee quali Australia e Giappone non è andato a buon fine dato che, almeno al momento, nemmeno questi scambi risultano in aumento. Il ministro per l’Agricoltura e la pesca Mark Spencer si proclama ottimista, nonostante tutto. «Il commercio con l’Europa si sta riprendendo e dati recenti mostrano che il livello degli scambi è tornato a quello prepandemico» ha fatto sapere tramite un suo portavoce, aggiungendo che sono state rimosse oltre 400 barriere lungo i confini con 70 Paesi negli ultimi due anni. «Si può però fare molto di più» ha ammesso e sullo sfondo rimangono i disagi provocati dal nodo nord-irlandese, ancora tutto da risolvere.
«Sono stati commessi degli errori da entrambe le parti» ha riconosciuto di recente il primo ministro di Belfast, Leo Varadkar. «Non c’erano linee-guida, non era qualcosa che ci aspettavamo, siamo stati troppo rigidi. Tra l’Ulster e l’Inghilterra abbiamo creato frontiere che non esistevano, rafforzando i timori degli Unionisti. Ora bisogna essere più flessibili e ragionevoli». Al momento però, l’Irlanda del Nord è ancora nel mercato unico e la situazione paralizza anche il funzionamento del Parlamento visto che gli unionisti si rifiutano di governare in coalizione con il partito indipendentista Sinn Feinn fino a che il problema non verrà affrontato. Se il giudizio degli economisti non è unanime riguardo alle conseguenze della Brexit sulla crescita, quasi tutti concordano sugli effetti che la fine della libera circolazione delle persone ha avuto sulla quantità e la qualità della forza lavoro nel Regno Unito. Alcuni settori come sanità, ospitalità, logistica sono estremamente penalizzati dall’uscita dall’Unione europea. La forte carenza di personale medico e infermieristico è il motivo scatenante per una lunga serie di scioperi che fanno tremare il sistema sanitario nazionale. Lo scorso dicembre, per la prima volta nella storia inglese, hanno incrociato le braccia i paramedici, compresi gli autisti delle ambulanze, costringendo il governo a schierare l’esercito per far fronte a un’emergenza mai vista prima.
Rishi Sunak, primo ministro dall’ottobre scorso, ha garantito di voler dimezzare i tempi di attesa delle visite specialistiche e aumentare ii medici di famiglia; ma nella sua prima intervista del 2023 alla Bbc si è rifiutato di rivelare se la sua famiglia si stia avvalendo di un medico privato anziché di uno pubblico. Non una grande mossa mediatica. È innegabile che la Brexit sia alla base di una «fuga di cervelli» prima assolutamente sconosciuta nel luogo che, anzi, accoglieva le menti più brillanti di tutta Europa. Secondo i dati raccolti dal Migration Observatory, nel 2022 hanno lasciato la Gran Bretagna ben 10 mila medici e il Servizio sanitario nazionale lamenta una carenza di 132 mila operatori tra infermieri, operatori, dottori e specialisti. In tutto, sarebbero 350 mila i cittadini che hanno chiesto e ottenuto un passaporto europeo; e negli 12 mesi 90 mila di loro si sono spostati all’estero.
Una tendenza che rischia di proseguire nei prossimi anni, anche a causa dell’incertezza che persiste sullo schema per ottenere la residenza definitiva nel Regno Unito. Le regole attuali prevedono infatti che dopo cinque anni di residenza temporanea nel Paese i cittadini europei debbano richiedere quella definitiva, senza la quale verrebbero dichiarati immigrati illegali da un giorno all’altro. Con una sentenza molto controversa l’Alta corte di Londra ha dichiarato illegittima questa procedura in quanto violerebbe proprio gli accordi della Brexit. Si tratta di una buona notizia per le migliaia di studenti e lavoratori italiani presenti ancora nel territorio britannico che fino a ora, se non si riusciva a presentare in tempo la domanda, si restava alla mercé di decisioni individuali delle autorità dell’Home office.
Dopo la Brexit comunque, a fare i bagagli è stata soprattutto la manodopera non altamente qualificata che il governo pensava di sostituire con quella nazionale opportunamente istruita per mezzo di corsi di aggiornamento. Così però non è stato e adesso settori come quelli del turismo e della logistica si trovano in guai seri tanto da indurre anche i brexiteers più determinati a chiedere deroghe all’attuale legislazione. Lord Wolf, deputato conservatore e capo della catena di abbigliamento Next, si è dichiarato convinto che la politica migratoria attuale stia bloccando la crescita economica. «Il nostro governo deve decidere se la Gran Bretagna vuole rimanere una nazione aperta al libero commercio oppure se vuole trasformarsi in una fortezza» ha tagliato corto. «Abbiamo persone che fanno la fila per entrare a raccogliere il grano e lavorare nelle nostre fabbriche e noi non li lasciamo entrare». Secondo Wolf è essenziale che le aziende che non trovano personale britannico da impiegare possano reclutarne di straniero. «Basterebbe imporre a queste compagnie una tassa da pagare per l’assunzione di dipendenti da altri Paesi» ha detto «in modo da incoraggiare l’utilizzo di personale nazionale, ma senza vietare del tutto il ricorso a manodopera dall’estero laddove si renda necessaria».
Il governo di Sunak ascolta e prende nota, ma di sicuro in questo momento, non intende fare passi che possano compromettere ancor di più le fragili relazioni con l’Europa. Lo dimostra il fatto che, a dispetto delle pressioni dei brexiteers più estremisti, l’esecutivo ha deciso di far slittare l’approvazione del piano per eliminare dalla legislazione nazionale tutte le leggi europee comprese quelle sui salari minimi, la sicurezza sul posto di lavoro, la protezione dell’ambiente. Questioni per la difesa delle quali i lavoratori britannici sono pronti a scioperare. Meglio per tutti allora, rimanere ancora per un po’ sotto l’ala protettrice della matrigna Europa che, forse, così matrigna non era.
