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Se questa non è una donna

Se questa non è una donna

Dichiararsi felici della propria identità, come ha fatto la cantante Adele, è pericoloso: un gesto che scatena odio e minacce. Inchiesta sul «tribunale» del politically correct. Che in nome delle minoranze nega la libertà di tutti.


La sublime Adele ha stravinto agli ultimi Brit Awards, il prestigioso premio musicale che proprio da quest’anno ha abolito le categorie maschile e femminile. La cantante inglese più famosa al mondo ha trionfato. Almeno fino a quando sul palco ha pronunciato il fatidico discorso: «Capisco perché hanno cambiato il nome di questo premio, ma amo davvero essere una donna, un’artista donna». E puntuale come un treno giapponese è partito lo shitstorm, la purulenta tempesta perfetta. Una colata di odio, valanghe di fango virtuale gettato sul suo meraviglioso abito nero Armani Privé. Lapidata senza pietà sui social: «È una TERF». Il peggiore insulto che oggi si possa lanciare, ossia una femminista radicale trans-escludente. Come quella strega di J.K. Rowling, la mamma di Harry Potter, già arsa sui roghi social per le sue dichiarazioni, secondo il tribunale del politically correct, transfobiche.

Ma cosa avrebbe dovuto dire la meschina? «Sono orgogliosa di essere, boh, quello che volete voi»? E intanto un lecito dubbio sorge: se a dirlo fosse stato un maschio avrebbe subìto lo stesso massacro? «Se lo avesse detto un uomo nessuno faceva un plissé» ne è certa Marina Terragni, scrittrice, giornalista, femminista. Come è sicura che: «È stata coraggiosa. Era assolutamente consapevole di quello che stava dicendo e che sarebbe finita nel tritacarne toccato già alla Rowling, alla femminista Julie Bindel, alla scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie. Nominarsi donna è diventato un atto politico. Siamo oltre il politicamente corretto, siamo alla sostituzione del genere femminile».

Oggi chiamarsi donna, soprattutto in Inghilterra, è La macchia umana, per citare l’immenso Philip Roth, che detestava essere woke, l’essere «sveglio», ma scriveva i migliori libri letti finora. Continua Terragni: «L’obiettivo finale del patriarcato è sempre stato tenerci sotto. E mi pare che questo sia il colpo di coda estremo del dominio maschile. Certo, ci sono schiave radiose, ancelle entusiaste che partecipano al progetto, ma ci sono sempre state. Per alcune donne tutte le cause sono migliori della propria. Ormai ci siamo spinti nel prometeismo maschile oltre ogni limite». Insomma Adele non è una qualsiasi: ha una voce unica, è dimagrita 30 chili in un anno, mentre noi manco il panettone abbiamo ancora smaltito. Ha trasformato il dolore per la fine del matrimonio nell’ultimo album 30, il disco più venduto del 2021. Ma non può dirsi orgogliosa. C’è chi pensa comunque che non sempre sia necessario rivendicare di essere una donna.

Come Eleonora Giovanardi, non solo bella protagonista della fiction di Rai1 Lea-Un nuovo giorno, ma femminista cofondatrice di Amleta, associazione di promozione sociale che combatte per l’uguaglianza e contro la violenza di genere all’interno del mondo dello spettacolo.

Roba da armarsi come la falange romana per combattere in una giungla. «Non sono una tuttologa, né un’esperta di Gender studies. Comunque un premio neutro è un passo simbolico importante, è un segnale di inclusività che non costringe affatto a rinnegare la propria identità sessuale» commenta l’attrice, «Certo saremmo ingenui se pensassimo che risolve la parità di genere, il discorso è più complesso. Se ricevessi un premio neutro non mi sentirei di dover difendere la mia identità sessuale, né penserei mai di essere costretta a rinnegare la mia identità di genere. Purtroppo il dibattito si sposta sui social e spesso si va avanti a slogan e hashtag. Una comunicazione basica, una semplificazione del reale».

La realtà invece è molto più complicata: «Viviamo nell’Absurdistan», tuona lo scrittore Gaetano Cappelli. «Chiunque non la pensi in un determinato modo viene emarginato. Chi non si sottomette ai canoni linguistici è da eliminare. E con questo arriviamo alla polemica sullo schwa. Visto che nasce per rendere la lingua italiana più inclusiva e meno allegata al predominio del maschile, perché non la chiamano “la schwa”?». La domanda è lecita. Cappelli è convinto che siamo precipitati in un Medioevo spacciato per perverso progresso: «Con il codice di norme e divieti che si è creato siamo nell’era della “Sharia dell’Occidente”. Che differenza c’è tra i talebani che hanno distrutto i Buddha di Bamiyan e gli invasati che in America sminuzzano alacremente le statue di Colombo?». Per raccontare il paradosso di questa società liquida, dove Fluid is the New Black, lo scrittore in primavera uscirà con un pamphlet dal titolo: Lo snob nella società dello snobismo di massa (Oligo editore).

E il vero snob non può prescindere dall’aver visto l’ultimo Festival di Sanremo: «Hanno detto, le donne per prime, che Drusilla Foer è stata la migliore sul palco dell’Ariston. Ma quello è un uomo! Ormai i maschi hanno un’immagine talmente fluida che si è dissolta come l’inchiostro nell’acqua». Di melassa politically correct grondava anche And Just Like That, il sequel di Sex and The City. Sono state inserite minoranze etniche e di genere come Che Diaz, podcaster «non-binary» (chi non si identifica nel maschile né nel femminile), per cui Miranda perde la testa.

Tutto corretto, finché l’amara realtà irrompe, rovinando il sogno mieloso. Chris Noth, alias Mr. Big, fuori dal set è stato accusato di molestie sessuali. Viviamo in sepolcri imbiancati. Ma c’è chi afferma che queste siano solo le fissazioni reazionarie di una destra paranoica: «Tu crei un’ideologia, negando che sia un’ideologia» spiega Giulio Meotti, giornalista e scrittore. «È fondamentale negare che esista la cancel culture o il woke capitalism. Se lo dicessero chiaramente, si capirebbe che ci si trova davanti a un progetto ideologico. Per esempio, il Globe Theatre sta riscrivendo le opere simbolo di Shakespeare, come Amleto, in chiave antirazzista. Questa è un’ideologia che sradica, ma attraverso un volto benigno. Non è Robespierre, né Pol Pot, per questo è difficile da contrastare».

Secondo Meotti è un dibattito enorme e le donne sono le prime a subirlo: «C’è una questione di misoginia profonda, spacciata per inclusione di nuove categorie, un odio per l’esistenza femminile, che non viene visto dalle benpensanti. È ridicolo liquidare questo fenomeno di seduzione di massa come un complotto dei soliti reazionari. La parola inclusione nasconde una profonda intolleranza verso il vecchio mondo».

Ma il vecchio mondo si ribella. Il filosofo Fernando Savater, uno dei massimi intellettuali spagnoli, nel suo ultimo libro Solo Integral ammette di non riconoscersi più nella sinistra dei ciarlatani del politicamente corretto. In una recente intervista a Il Foglio dichiara: «Perché parlare dell’assurdità dell’autodeterminazione di genere, di un crimine di stupidità contro la biologia e l’educazione dei bambini o della folle supposizione che i crimini sessisti siano motivati unicamente dalla condizione femminile delle vittime? A chi mi chiede come sia cambiato così tanto da quello di sinistra che ero, rispondo che la domanda che dovrebbero porsi è: come è cambiata la sinistra».

Domanda che si pone anche lo scrittore Daniele Rielli, conduttore di un podcast molto seguito: «A sinistra siamo passati in meno di due decenni da: “Non sono d’accordo con la tua idea, ma mi batterò perché tu possa dirla” all’idea che sia giusto licenziare ed emarginare qualcuno che ha detto qualcosa con cui non siamo d’accordo. Faccio fatica a spiegarmelo. Si sta riducendo molto lo spazio del dialogo. Non ci si può piegare al ricatto dei militanti che si auto intestano la rappresentanza di intere fasce di popolazione senza interpellarle, e poi si ergono a sentinelle del dibattito pubblico in una maniera capziosa e censoria».

Il suo romanzo Odio è un’analisi coraggiosa e spietata del nostro tempo: «Il politicamente corretto è una versione modificata del marxismo classico. Quello che una volta era conflitto di classe è stato spostato sul conflitto d’identità. È un sistema che può funzionare benissimo con il capitalismo, anzi conviverci. Una deriva pericolosa, si perde l’idea illuministica di uguaglianza di fronte alla legge. Tutti veniamo definiti per l’appartenenza a questa o quella categoria. E la categoria sta diventando più importante della persona». Per Rielli questo è il decennio del vittimismo: «Dell’immaginario collettivo degli anni Ottanta dovevi essere un vincente. Oggi c’è un rovesciamento totale: per essere cool devi essere almeno un po’ vittima. È il nuovo conformismo». Come scrisse Robert Hughes nel suo celebre La cultura del piagnisteo: «La doglianza dà potere, anche se è solo il potere del ricatto emotivo, che crea un tasso di sensi di colpa sociali mai registrato in precedenza».

Eugenio Capozzi, docente di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa, ha scritto un saggio molto interessante: Politicamente corretto. Breve storia di un’ideologia. «Il relativismo radicale è diventato cultura dominante dell’élite occidentale» dice a Panorama. «La verità è ridotta a narrazione, retorica, emotività. Rifiuta la dialettica e preferisce premiare l’efficacia della narrazione. È la filosofia perfetta della dittatura della comunicazione di massa».

Secondo lo studioso tutto nasce dalla crisi delle ideologie del Novecento: «Esaurito il loro fascino rimaneva un vuoto da colmare e un nuovo nemico da identificare. E questo è diventato l’Occidente, interpretato come una civiltà strutturalmente discriminatoria, patriarcale, sfruttatrice e oppressiva. Da qui i tre filoni del politicamente corretto: il relativismo culturale, bioetico, ambientalista». Continua Capozzi: «Si moltiplicano i Cultural studies fondati sulle teorie di Jacques Derrida e Michel Foucault. Inizia l’opera di picconatura. Nel segno della decostruzione nasce la nuova retorica che intende essere programmaticamente antidiscriminatoria. Da tutti i punti di vista, a cominciare da quello della lingua».

Il linguista Massimo Arcangeli ha lanciato una petizione, cui hanno aderito intellettuali come Massimo Cacciari e Alessandro Barbero: «La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l’emersione di un verbale di concorso universitario, dove è stata usato lo schwa. La stessa commissione ne aveva già prodotti altri sei, scritti tutti allo stesso modo. È un’operazione inaccettabile in un contesto pubblico. Nelle grammatiche social ognuno può usare la lingua che vuole, ma che questa innovazione finisca in documenti pubblici è inamissibile». Secondo Arcangeli il problema va ben oltre la lingua: «C’è l’intento profondo di turbare il libero dibattito cultural. Predomina quell’idea, un po’ da puzza sotto il naso, che bisogna essere tutti inclusivi, buoni, il che ovviamente ci sta. Ma qui stiamo parlando di una pretesa inclusività che tocca la lingua su aspetti tecnici e non ci si rende conto della gravità che potrebbe produrre questa deriva linguistica. La Santa Alleanza tra la sinistra “fighetta” e gli effetti devastanti del politicamente corretto sono i grandi responsabili di queste tendenze che prima di essere linguistiche sono culturali».

L’autore di Una pernacchia vi seppellirà (Castelvecchi) è convinto che la situazione sia molto più pericolosa di ciò che si crede: «Dovremmo vigilare, ma temo sia tardi. Lo schwa distrugge dall’interno la struttura dell’italiano. Ci sono case editrici che pubblicano testi sulle nuove parole dedicati ai bambini. Arriverà presto nelle scuole». Al momento siamo solo allo “schwa all’italiana”, cioè più modaiolo che di sostanza, messo qua e là, mescolato a qualche asterisco, per dare un contentino a tutti.

La solita soluzione annacquata di cui siamo campioni. Perché in fondo rimaniamo quelli raccontati da quel genio di Ennio Flaiano: «L’italiano è una lingua parlata dai doppiatori».

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