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Perché il prossimo focolaio sarà l’Africa

Finora nel continente i casi accertati di coronavirus sono abbastanza limitati, ma per l’Oms il numero dei malati è destinato fortemente ad aumentare. La maggior parte dei Paesi è impreparata al contagio. E profilassi e distanziamento sociale sono impraticabili.


Sembrerebbe il continente più risparmiato dalla pandemia Covid-19. Al momento, infatti, in Africa gli Stati coinvolti sono 43 su 55, con Egitto, Nigeria, Sudafrica, Algeria e Marocco tra i più colpiti, nell’ordine però di poche centinaia di casi. Ma è davvero così? E per quale motivo?

Il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, l’etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, non si fa illusioni: «Il miglior consiglio da dare all’Africa è quello di prepararsi al peggio e prepararsi sin da oggi». Mentre il direttore Oms per l’Africa, Matshidiso Moeti, alla domanda sul perché i numeri nel continente siano così bassi, risponde laconico: «Non abbiamo alcuna spiegazione». Al tempo stesso, però, segnala «un rapido aumento nelle ultime settimane». Allo studio sono anche considerazioni di carattere empirico.Per esempio, la correlazione con il clima: «Abbiamo osservato come nei Paesi africani e in Sudamerica la diffusione del virus non sia la stessa del Nord del mondo». Pertanto, «stiamo cercando di capire se vi possa essere una correlazione tra virus e temperatura», in linea con ricerche che hanno messo in relazione la resilienza del Covid-19 con l’inquinamento atmosferico. Ancora da chiarire, invece, il ruolo giocato dalla forte presenza della Cina nell’intero continente. Considerato che gli appetiti commerciali di Pechino hanno portato negli ultimi anni in questa parte di mondo centinaia di migliaia di lavoratori, si tratta di capire se c’è stato un contagio da parte di persone in arrivo dal Paese siatico.

Questa «colonizzazione» ha accresciuto il Pil di molti Stati africani e giovato alle locali infrastrutture, alimentandosi grazie alla domanda crescente di materie prime da parte di Pechino (petrolio, minerali, ma anche di beni alimentari). Tuttavia, il crollo dei consumi cinesi dovuto al coronavirus, rischia adesso di riportare il continente indietro di molti anni. Con gravi ricadute, sul profilo anzitutto economico: sui prestiti concessi da Pechino nell’ambito della Via della seta e sulla possibilità di predisporre interventi d’urgenza per contrastare un’epidemia, per esempio. A rischiare di più, in tal senso, si ritiene siano Sudan, Ghana ed Etiopia. Quest’ultima mantiene ancora le rotte aree aperte da e verso la Cina. Così pure l’Algeria dove, al contrario dell’Etiopia, nelle ultime settimane si è registrato uno dei più alti incrementi di contagio dell’intera Africa.

Di certo, combattere il virus con le misure messe in atto in Europa – distanza sufficiente tra individui, igiene personale, isolamento di centri urbani – non appare praticabile: «Le condizioni socio-economiche in cui vivono molti africani, specialmente nelle aree urbane, rendono il distanziamento sociale nel modo in cui si raccomanda, una sfida» stigmatizza Moeti. Anche perché molte famiglie vivono in abitazioni senza sufficienti stanze dove isolarsi, e spesso prive di acqua corrente per lavarsi frequentemente le mani. Quindi, le raccomandazioni dell’Oms sono quasi impossibili da seguire. Senza contare alcune false credenze. Come è evidente il caso di Nathan Kirimi, un pastore Meru del Kenya che ha arringato le folle per settimane (prima di essere sospeso) sostenendo che non avrebbe chiuso le porte della sua chiesa, perché il coronavirus «è un inganno», mentre lavarsi le mani «è una pratica ridicola». D’altra parte, l’Africa non è nuova a crisi ed epidemie sanitarie.

L’ultima è stata provocata dal virus Ebola che, esploso nell’area centrale e occidentale del continente (Guinea, Liberia, Sierra Leone, Nigeria), ha provocato oltre 11 mila vittime. Forti anche di quell’esperienza, le classi dirigenti degli Stati più sviluppati stavolta non hanno sottostimato i rischi potenziali legati alla possibile diffusione massiccia dei contagi, attivando tempestivamente il Sendai Framework for disaster risk reduction, una convenzione Onu siglata nel 2015 per migliorare le capacità di gestione e risoluzione delle crisi legate ai disastri naturali e alle epidemie.

Secondo le analisi del Centro Studi Internazionali (Cesi) di Roma, alcuni Paesi africani «hanno adottato le più diverse misure di contenimento, dai controlli biometrici negli aeroporti e nei luoghi di maggiore aggregazione. Fino alla limitazione o alla chiusura del traffico aereo dall’Europa e all’imposizione della quarantena per i soggetti provenienti da aree a rischio o che sono stati in contatto con esse».

In Sudafrica, per esempio, è stato imposto lo stato d’emergenza e la limitazione nell’apertura di uffici e luoghi ad alta densità umana. Mentre a Dakar, in Senegal, e a Brazzaville, la capitale congolese sede dell’ufficio regionale per l’Africa dell’Oms, si sta lavorando per adattare le infrastrutture esistenti e affrontare così in modo adeguato i primi casi gravi che si verificheranno. Data la scarsità di personale qualificato e di reparti di terapia intensiva, però, il contrasto al virus si annuncia complicato.

Parallelamente, grazie a Oms e Unione africana, è nata l’African task force for coronavirus (Aftcor), «una piattaforma che ha l’obiettivo di coordinare le attività di contenimento del virus, condividere le scorte di materiale sanitario e attuare un piano di comunicazione univoco e coerente» come spiegano Marco Di Liddo ed Emanuele Oddi del Cesi. A recepirne i protocolli sono stati 28 Paesi, mentre 47 di loro dispongono già di laboratori attrezzati per analizzare i tamponi effettuati su pazienti sospetti. La sfida, insomma, è appena all’inizio.

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